sabato 5 luglio 2008

Gli asfodeli di Cere

Presero la strada fiancheggiata da pini e cipressi che conduceva alla necropoli monumentale che già era il tramonto. Si erano attardati nell’attuale Cerveteri, dopo la visita al museo a mangiare pizza e dolci etruschi come diceva la scritta sopra l’entrata della pasticceria. Il più etrusco di questi dolci, fatto di due biscottini uniti da un velo di marmellata con due ampollosità da una parte e dall’altra una punta ricoperta di cioccolato, ricordava quelle pietre davanti alle tombe su cui si era volentieri soffermato Lawrence. Simboli fallici di divinità maschili preposte a sorvegliare l’entrata. Che forse un tempo svettavano anche sulle sommità dei tumuli. Le tombe femminili invece erano indicate da cippi a forma di casa con il tetto a duplice spiovente. La donna dunque rappresentata dalla casa, ma la casa del principe nel mondo etrusco più antico era anche il centro politico e religioso.
Cristina ricordava cosa c’era scritto sul manuale di Massimo Pallottino. Se Veio era scomparsa, Cerveteri era l’immiserito erede dell’antica metropoli:

“un centro che era stato eccezionalmente ricco e popoloso, forse uno dei più splendidi del mondo allora conosciuto.”.

Il museo di Cerveteri non è grande, le cose più importanti provenienti da Cere si trovano sparse per i musei del mondo. Daniele e Cristina lo visitarono quasi in solitudine, trovatisi a capitare tra truppe di studenti e di turisti stranieri che passavano come meteore tra i due lunghi saloni dei due piani che lo compongono. L’ultima truppa fu implacabilmente arrestata alla biglietteria, che chiudevano un’ora prima, per un quarto d’ora di ritardo. Così per un quarto d’ora quegli stranieri non videro le anfore biconiche, il cratere con la coppia di figure, cavalli ed altri animali, considerato all’origine della grande produzione di vasi locale. Ignorarono i sandali incernierati - là dove il piede s’inarcua - forse unici al mondo, che solo gli etruschi, come nessun altro popolo lavoratore di metalli, poterono concepire. Non poterono vedere, per un quarto d’ora di ritardo, la gorgoneion di bronzo, ritrovata in una discarica etruscoromana. Quest’immagine, circondata fittamente nel suo contorno da teste piccolissime di serpenti, gli occhi d’avorio, ricorre sempre uguale a se stessa nei vasi, nelle pitture, negli oggetti di bronzo, come un famoso candelabro di Cortona. Racchiudeva molto probabilmente una simbologia cosmica.
Usciti dal museo, percorsa Ceveteri nella sua lunghezza, videro di là dal fosso sul pianoro opposto, una processione di pini e cipressi che indicava la via alla necropoli, anche se ancora non lo sapevano, si chiedevano dove portasse, e avrebbero dovuto dedurlo: a Cere - e molto probabilmente ogni qual volta la disposizione delle alture lo favoriva - la città dei morti affrontava la città dei vivi, quasi vi gareggiasse, entrambe allungate sugli opposti pianori tufacei separati dal fosso inciso nel tufo. Per raggiungerla occorreva uscire dalla città dal suo lato corto, passare sotto gli ultimi bastioni smozzicati, trassennati e quasi inghiotti dalle case costruitegli addosso, e risalire subito a destra. Invece sbagliarono e presero la strada del Sasso, in una conca ridente tra il mare, una linea d’azzurro, e i monti della Tolfa, masse compatte, verde bruno raggruppate contro il cielo. Ricca di coltivazioni, come pure doveva essere ai tempi degli etruschi, ma anche di ville e villette.
Quando finalmente scesero dall’automobile, circondati dai tumuli, ancora una volta ebbero l’impressione forte di trovarsi in un altro mondo.
- Si sente l’odore della campagna – disse Daniele.
Tutto intorno era il verde d’aprile e sopra di esso si alzavano alte le spighe dei pallidi asfodeli, in piena fioritura. Le sommità dei tumuli ne erano piene. Dalla parte del mare un sole rosso si apprestava ad uno dei migliori, rinomati tramonti tirrenici. Se la volta celeste era un fragoroso contrasto di colori, i “fiori dei morti” erano uno spettacolo molto meno assordante ma, in tono minore, un canto altrettanto magnifico.
Daniele si concentrò sul tramonto, finchè il sole scomparve; Cristina sugli asfodeli spiando le le nere imboccature di porte e finestre, delle abitazioni sepolcrali. Dal pianoro della necropoli era l’odierna Cerveteri che ora si stendeva davanti a loro.
Tante cose avevano visto con i loro occhi e riflettuto nei loro discorsi ma il mistero non si placava.
- La fine degli etruschi, a parte il loro rifluire nella società romana, sembra infine modellarsi nei sarcofagi di terracotta di Tuscania in cui gli artigiani etruschi imprimevano le naturali e vere sembianze del defunto, insomma nel ritratto. Se c’è un percorso che possiamo ricostruire dai banchetti con i corredi di anfore e bicchieri, e le danze, passando per i tristi, anche se su carri principeschi, cortei dei viaggi nell’al di là, un percorso che è un anelito d’eternità per sé stessi e di fronte ai vivi e ai posteri, allora questo percorso, questa pretesa di salvaguardia della propria individualità, sfocia nel ritratto.
- E ti pare poco?

2 commenti:

lampada ha detto...

Cara piccola Dorrit,
oggi ho avuto un pò di tempo e mi sono messa a leggere le tue impressioni sugli Etruschi: ho notato una grande passione da parte tua, e delle ottime conoscenze. spero che le continuerai e scriverai ancora sull'argomento. Per me, che ne sono quasi all'oscuro, è molto interessante. Buon lavoro!
lampada

lampada ha detto...

Cara piccola Dorrit,
oggi 30 settembre ho riaperto il tuo blog e speravo di trovare qualcosa di nuovo. Invece non ho trovato nessun altro scritto. Ti sei stancata? Peccato, perchè il tuo modo di scrivere tra il nostalgico e il realistico-sociale, mi piace: io non so scrivere, ma amo leggere e quando ho tempo faccio una passeggiata tra gli scritti altrui, trovando spesso articoli interessanti. Spero mi permetterai di leggere qualcos'altro di nuovo. Lampada.

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