domenica 13 luglio 2008

Piazza Navona




Chi teme la piazza. Le élites – le oligarchie – temono e in fondo disprezzano le piazze. Dove si affolla la gente, sconosciuta, spesso volgare.
Dalle colonne di un giornale sostanzialmente oligarchico, Ezio Mauro da un lato riconosceva il merito dei cittadini, appunto, “sconosciuti" (però!) che “hanno voluto riconnettersi al discorso pubblico in un momento delicato”, dall’altro stigmatizzava l’esito appunto volgare della manifestazione impressale da chi la conduceva dal palco. Il borghese attuale evidentemente continua ad essere afflitto dal complesso della volgarità. Nel mondo oligarchico borghese, del resto, essere sconosciuti è un po’ come il peccato originale e nelle oligarchie borghesi tutti sono noti tra loro, o attraverso loro amici. Il cittadino sconosciuto è come tale, oserei dire, quasi certamente inferiore. Perché se avesse meriti sarebbe diventato noto per essi. L’élite borghese, infatti, ancora si nutre dell’idea di progresso e che, a conti fatti, questo non possa che essere il migliore dei mondi possibili - in particolare che questo mondo capitalistico sia il migliore dei mondi possibili -. Corollario di questa visione del mondo è che i migliori non possono che emergere e … confluire nelle élites, naturalmente! In genere gli oligarchi, per l’appunto, non fanno che parlare di percorsi d’eccellenza che selezionino i migliori.
Così tutto ciò che viene dall’iniziativa, l’intuizione, della gente, dello spirito popolare, è perciò guardato con sospetto e criticato dagli oligarchi, anche perché sfugge al loro controllo.
Peccato che i grembiulini dei girotondini si siano sporcati nel cadere “tutti giù per terra” come, per la verità, comanda la filastrocca. Altro che sfacelo di Piazza Navona. Altro chè.

sabato 5 luglio 2008

Appendice

Seguito del racconto di Cristina iniziato nel parco dei mostri di Bomarzo.

La sala destinata alla riunione era bianca come il suo arredamento. I convenuti discutevano tra loro in piccoli gruppi. Solo i grandi saggi di Kronos, con le loro bianche zanne ricurve e la proboscide nervosa avevano già occupato il loro posto. La delegazione terrestre, tutta di sesso maschile, sembrava intrattenersi piacevolmente con le rappresentanti femminili di Syrenoid. I grandi insetti e ragni della galassia di Artropoidea stavano un po’ isolati dal resto come sempre, eppure – pensò Thefarie Velianas – il loro modello di sviluppo restava tra i migliori dell’universo.
Il presidente della conferenza intergalattica universale battè il grande martello, un colpo che parve a qualcuno dei partecipanti assordante, come si fosse aperta la porta dell’al di là: così risultò quel colpo alle orecchie terrestri, mentre sembrò essere appena avvertito dagli altri. Ottaviano G. Kennedy, capodelegazione della Terra, ancora non aveva ben compreso lo scopo di quella convocazione straordinaria.
Fu data la parola al grande Mammut di Kronos, Elepharamesse, colui il cui sguardo più di chiunque altro nell’universo sapeva inoltrarsi nel passato e prevedere il futuro. Elepharamesse controllava quotidianamente i dati che giungevano a lui da tutte le galassie e da tutti i pianeti. Nell’ultimo mese galattico i dati provenienti dalla Terra lo avevano impensierito. Si era posto a studiare il caso e la preoccupazione si era trasformato in un allarme che aveva i caratteri dell’urgenza: la terra aveva i giorni galattici contati.
Il sorriso sulla faccia di Ottaviano G. Kennedy, andava spegnendosi: era vero che avevano in quel momento qualche problema energetico e di smaltimento dei rifiuti, come altre volte in passato, ma a loro sulla Terra non era sembrato così catastrofico, tanto da convocare il Consiglio Intergalattico! Sentì che lo sguardo scettico dell’assemblea era puntato su di lui, ed un brusio si sollevava. Elepharamesse si pose ad illustrare lo stato della Terra, mentre il presidente Thefarie Velianas accarezzava il manico del suo poderoso martello. I terrestri pregarono di non doverlo riascoltare.
La soluzione Asimov, dal nome del suo geniale inventore, si era rivelata ottima per appena trecento anni terrestri. Gli uomini avevano abbandonato la crosta terrestre, il loro cielo azzurro e le nuvole che erano state bianche, ed erano andati ad abitare nel sottosuolo. Un’unica enorme città sotterranea, stipata al massimo, e forme di vita comunitarie avevano consentito un enorme risparmio energetico ed un apparente ottimale riciclaggio dei rifiuti. Intanto però la superficie della terra si era riempita d’inceneritori. Il sistema stava collassando, qualcosa non aveva funzionato: i terrestri umani molto probabilmente avevano continuato a consumare troppo.
Non restava altro da fare, secondo Elepharamesse, che abbandonare il pianeta. Approntare in breve tempo una grande flotta spaziale su cui evacuare le specie viventi sulla Terra. Un grande viaggio, un destino migratorio improrogabile era nel futuro dei terrestri. L’assemblea discusse e approvò.
Smarrito, Ottaviano G. Kennedy che sulla Terra leggeva qualche volta un libro tramandatosi dai tempi più antichi, si scoprì a pensare stranamente ad un’arca di legno.
Il vice capo della delegazione terrestre si chiamava Ulisse Joyce. Era rimasto meno abbattuto dei suoi compagni alla grave notizia. Guardò con rinnovato interesse verso il banco, o meglio la piscina, dove erano adagiate le ragazze di Syrenoid. In fondo – pensò – anche sulla Terra la vita era cominciata dall’acqua.

Pyrgi. Dove il viaggio si conclude.

Pyrgi era stato il porto e l’emporium di Cere. Sviluppatosi come luogo di culto con due templi, l’uno dedicato ad Astarte-Uni – qui sono state trovate le lamine d’oro con iscrizioni in lingua etrusca e fenicia - con le prostitute sacre, donne che volevano farsi una dote, secondo un costume molto orientale. Alcune parti di questi templi che furono recuperati negli scavi sono a Villa Giulia: le decorazioni fittili che illustrano il racconto mitologico dei “Sette contro Tebe” hanno la stessa forza prepotente dell’Apollo di Veio. Il santuario di Pyrgi era ricchissimo per gli ex voto che accoglieva, segno della ricchezza dei commerci di Cere. Venne saccheggiato dai Siracusani nel nel 384 e rimase l’eco nel mondo antico del gran bottino che se ne ricavò.
Nel piccolo antiquarium c’è poco da vedere. Poi, però, in piccola processione, i visitatori s’incamminano dietro la guida a vedere il luogo dei basamenti di questi templi e siccome è proprio vicino al mare che è azzurro perché è una splendida giornata, allora diventa proprio un’altra cosa. Pensare l’affollamento dei tempi etruschi ed ora vedere la grande distesa del mare, la verde macchia mediterranea e di ciò che era Pyrgi solo i piatti rettangoli disegnati nella terra dalle pietre dei basamenti dei templi scavati. La guida indica un poco più indietro, verso l’Aurelia, un’altra linea, quella dove passava la strada etrusca.
Ora Cristina e Daniele guardano il mare dall’alto del Castello di Santa Severa. Hanno telefonato ai ragazzi che tra poco torneranno a casa. C’è una barchetta all’orizzonte che fa su e giù, un po’ si vede, un po’ sparisce, traballando come in un vecchio film, manca solo la dissolvenza in nero, il cerchio che la inghiotta.

Fine

Gli asfodeli di Cere

Presero la strada fiancheggiata da pini e cipressi che conduceva alla necropoli monumentale che già era il tramonto. Si erano attardati nell’attuale Cerveteri, dopo la visita al museo a mangiare pizza e dolci etruschi come diceva la scritta sopra l’entrata della pasticceria. Il più etrusco di questi dolci, fatto di due biscottini uniti da un velo di marmellata con due ampollosità da una parte e dall’altra una punta ricoperta di cioccolato, ricordava quelle pietre davanti alle tombe su cui si era volentieri soffermato Lawrence. Simboli fallici di divinità maschili preposte a sorvegliare l’entrata. Che forse un tempo svettavano anche sulle sommità dei tumuli. Le tombe femminili invece erano indicate da cippi a forma di casa con il tetto a duplice spiovente. La donna dunque rappresentata dalla casa, ma la casa del principe nel mondo etrusco più antico era anche il centro politico e religioso.
Cristina ricordava cosa c’era scritto sul manuale di Massimo Pallottino. Se Veio era scomparsa, Cerveteri era l’immiserito erede dell’antica metropoli:

“un centro che era stato eccezionalmente ricco e popoloso, forse uno dei più splendidi del mondo allora conosciuto.”.

Il museo di Cerveteri non è grande, le cose più importanti provenienti da Cere si trovano sparse per i musei del mondo. Daniele e Cristina lo visitarono quasi in solitudine, trovatisi a capitare tra truppe di studenti e di turisti stranieri che passavano come meteore tra i due lunghi saloni dei due piani che lo compongono. L’ultima truppa fu implacabilmente arrestata alla biglietteria, che chiudevano un’ora prima, per un quarto d’ora di ritardo. Così per un quarto d’ora quegli stranieri non videro le anfore biconiche, il cratere con la coppia di figure, cavalli ed altri animali, considerato all’origine della grande produzione di vasi locale. Ignorarono i sandali incernierati - là dove il piede s’inarcua - forse unici al mondo, che solo gli etruschi, come nessun altro popolo lavoratore di metalli, poterono concepire. Non poterono vedere, per un quarto d’ora di ritardo, la gorgoneion di bronzo, ritrovata in una discarica etruscoromana. Quest’immagine, circondata fittamente nel suo contorno da teste piccolissime di serpenti, gli occhi d’avorio, ricorre sempre uguale a se stessa nei vasi, nelle pitture, negli oggetti di bronzo, come un famoso candelabro di Cortona. Racchiudeva molto probabilmente una simbologia cosmica.
Usciti dal museo, percorsa Ceveteri nella sua lunghezza, videro di là dal fosso sul pianoro opposto, una processione di pini e cipressi che indicava la via alla necropoli, anche se ancora non lo sapevano, si chiedevano dove portasse, e avrebbero dovuto dedurlo: a Cere - e molto probabilmente ogni qual volta la disposizione delle alture lo favoriva - la città dei morti affrontava la città dei vivi, quasi vi gareggiasse, entrambe allungate sugli opposti pianori tufacei separati dal fosso inciso nel tufo. Per raggiungerla occorreva uscire dalla città dal suo lato corto, passare sotto gli ultimi bastioni smozzicati, trassennati e quasi inghiotti dalle case costruitegli addosso, e risalire subito a destra. Invece sbagliarono e presero la strada del Sasso, in una conca ridente tra il mare, una linea d’azzurro, e i monti della Tolfa, masse compatte, verde bruno raggruppate contro il cielo. Ricca di coltivazioni, come pure doveva essere ai tempi degli etruschi, ma anche di ville e villette.
Quando finalmente scesero dall’automobile, circondati dai tumuli, ancora una volta ebbero l’impressione forte di trovarsi in un altro mondo.
- Si sente l’odore della campagna – disse Daniele.
Tutto intorno era il verde d’aprile e sopra di esso si alzavano alte le spighe dei pallidi asfodeli, in piena fioritura. Le sommità dei tumuli ne erano piene. Dalla parte del mare un sole rosso si apprestava ad uno dei migliori, rinomati tramonti tirrenici. Se la volta celeste era un fragoroso contrasto di colori, i “fiori dei morti” erano uno spettacolo molto meno assordante ma, in tono minore, un canto altrettanto magnifico.
Daniele si concentrò sul tramonto, finchè il sole scomparve; Cristina sugli asfodeli spiando le le nere imboccature di porte e finestre, delle abitazioni sepolcrali. Dal pianoro della necropoli era l’odierna Cerveteri che ora si stendeva davanti a loro.
Tante cose avevano visto con i loro occhi e riflettuto nei loro discorsi ma il mistero non si placava.
- La fine degli etruschi, a parte il loro rifluire nella società romana, sembra infine modellarsi nei sarcofagi di terracotta di Tuscania in cui gli artigiani etruschi imprimevano le naturali e vere sembianze del defunto, insomma nel ritratto. Se c’è un percorso che possiamo ricostruire dai banchetti con i corredi di anfore e bicchieri, e le danze, passando per i tristi, anche se su carri principeschi, cortei dei viaggi nell’al di là, un percorso che è un anelito d’eternità per sé stessi e di fronte ai vivi e ai posteri, allora questo percorso, questa pretesa di salvaguardia della propria individualità, sfocia nel ritratto.
- E ti pare poco?

Verso il mare

Ritornarono indietro verso il mare. Passarono rapidamente tra le campagne di Vulci che, se non fosse per la presenza di quel castelletto e del ponte della badia, sembrerebbero proprio senza alcun segno evidente di stanziamento umano, e doversi perciò ridurre a quel

“nulla, nulla”

che Lawrence sentì ripetersi dagli uomini che incontrava, quando chiedeva loro dell’antica città di Vulci, e poi di Cosa e di Vetulonia, più su nella maremma toscana.
Così raggiunsero il mare, dove il fiume Fiora conduce il suo letto melmoso. Sdraiati sulla sabbia respiravano l’aria umida. A Cristina piaceva il profilo di Daniele contro il cielo.
Quanto mistero, quante difficoltà in questo viaggio verso gli etruschi.
E Daniele, quanto ancora misterioso era per lei ? – pensò Cristina - . Qualche domanda sarebbe rimasta senza risposta: “lost”.
Le tornò, le tornava spesso all’orecchio una canzone di Bob Dylan:

Sara: so easy to look so hard to define … mystical wife

Quel senso di mistero, dell’irraggiungibile, più spesso descritto dagli uomini, ma che anche le donne possono provare. Mystical husband! Dopo tanti anni di vita in comune, perché così era, anche se avevano scherzato nell’iniziare questo viaggio nell’Etruria meridionale a fare come se fossero una coppia nuova, il mistero restava. Era qualcosa forse di molto prezioso, da preservare. Le venne in mente che tutte le volte quando si litigava, quando lei provava a metterlo con le spalle al muro, Daniele riusciva sempre a dirle: “Non hai mai capito niente di me”. Le dava molto fastidio, e poi non era vero perché ormai lo conosceva molto bene. Ma in fondo era un’altra cosa, quel mistero più profondo, come Sara. Quello che era sicuro era solo che in quel momento erano vicini. Lei mise la mano nella sua, si abbracciarono. E’ strano ogni volta stupirsi di come il contatto fisico accarezzi l’anima.
Ancora laziale la costa, ancora piatta, e facile all’approdo. Il mare e i mostri marini con le ali, così singolarmente etruschi. In queste raffigurazioni Lawrence ancora una volta aveva riconosciuto simboleggiato l’andare e venire delle forze vitali, il ciclo dell’acqua, i flussi e i riflussi. Sempre c’è una simbologia nascosta e una doppia valenza per questi mostri che popolano le stanze dei morti, così essi sono al tempo stesso custodi del tesoro, coloro che tutelano, ma anche coloro che danno il colpo fatale.
Era strano parlare degli etruschi e del loro viaggio nell’al di là proprio in riva al mare, ancora e sempre il centro della vita, e difatti così rappresentato nelle loro tombe. Bisognava però arrivare a qualche conclusione, almeno sugli etruschi. C’era ancora Cere da visitare. Avevano ancora un po’ di tempo.

Ancora San Francesco

Nel locale s’era alzato il fumo della carne alla brace. Guardando nella coppa di vino per metà colma che aveva davanti a sé Cristina ad un certo punto ci vide qualcosa. Cercò di mettere meglio a fuoco l’immagine: era San Francesco, Ma che c’entrava? Seppure Assisi fu etrusca il grande santo medievale s’era risoluto, all’opposto di un principe etrusco, di spogliarsi di tutti i suoi beni. Cristina s’accorse che ad emergere dal bicchiere era il San Francesco di Giotto, nell’immagine più amata e popolare, del Santo che predicava agli uccelli. L’immagine è bella di per sé, nel suo contenuto “letterale”, perché presuppone quell’armonia della natura - del creato nella religiosità cristiana medievale – con la possibilità di comunicazione, fratellanza e solidarietà tra tutte le creature, così chiara nella mente di Francesco. Essa va dritta al cuore della gente, è recepita dallo spirito popolare. Ma gli uccelli chi rappresentavano? Forse Giotto, come i pittori etruschi, si servì di simboli, semplici e naturali.
Cristina guardò il suo compagno, che stava prestando orecchio ai discorsi sulla Ferrari, della tavolata accanto, del tipo: la nuova centralina elettronica di marca Mc Laren applicata a tutti i motori della formula uno. Provò a richiamare la sua attenzione.

Il lungo corteo dell'addio

Il signore o la signora, di questa società aristocratica, non sono più a banchetto con intorno a loro una moltitudine di servi che servono le libagioni, musici e danzatori, ma sono costantemente accompagnati, da dèmoni, il maschile Charun, con il grande martello e la femminile Vanth con in mano una fiaccola. Il martello che evoca miniere, pozzi e nani tolkeniani, serve ad aprire la porta dell’al di là, sempre rappresentata nelle tombe dipinte di Tarquinia, ma anche il colpo mortale; la fiaccola a fare luce nel cammino. Il corteo è lungo, con una schiera di servitori che portavano oggetti che illustrano il prestigio del defunto e c’è n’è sempre uno con una cassetta sulle spalle. Ancora, il signore etrusco fa il suo viaggio al meglio, con tutta la sua rappresentanza, sul carro principesco. A volte il carro è coperto, e allora il corteo può sembrare quello di un popolo migrante. Fece questo effetto a D. H. Lawrence quando vide questi cortei scolpiti nei cinerari del museo di Volterra.
All’ultimo piano del museo di Tarquinia sono state ricostruite quattro tombe dipinte, i cui affreschi, poiché si stavano deteriorando, sono stati staccati e posti qui su pannelli, nei primi anni Sessanta. Sono proprio tra le tombe che piacquero di più a Lawrence, quando le visitò “in situ” nel 1927. Tra le più antiche, tra sesto e quinto secolo, non ancora influenzate dalla maniera greca. Cristina e Daniele si accontentarono di vedere queste tombe dipinte, poiché in precedenza avevano entrambi già visitato la necropoli di Monterozzi.
Queste tombe, che fecero esaltare allo scrittore inglese la vitalità e la festosità degli Etruschi, ci danno effettivamente un’altra temperie del mondo etrusco se confrontate con i lunghi cortei dell’addio. Il fondo giallo crema delle pareti, che Lawrence considerava così adatto alle pareti domestiche, i colori vivaci e accesi, il contorno morbido del disegno. Questo prevalere del contorno, forse preservatosi come eredità nel disegno fiorentino, la caratteristica piattezza della pittura etrusca, perciò giudicata inferiore a quella greca, maestra dell’organicità e del chiaroscuro, sono ulteriori prove che gli etruschi facevano sempre le cose a modo loro.
All’ultimo piano i famosi cavalli di Tarquinia, frammento della decorazione di terracotta che ornava il grande Tempio dell’Ara della Regina, posti un tempo a un’estremità del triangolo del timpano. Erano colorati e si vede ancora che uno era nero e l’altro rosso. Anche nella scelta dei colori era celata una simbologia. Gli uomini avevano la pelle rossa, le donne erano invece chiare. Le cortigiane avevano la parrucca bionda.
Nel ristorante, alla grande tavolata, accanto a loro, solo uomini che forse festeggiavamo un cantiere che si chiudeva. L’accento era settentrionale. Si parlava di Ferrari e di motociclette, mentre ci si apprestava a demolire enormi grigliate. In fondo un richiamo all’Etruria padana.
- Ma questo viaggio nell’al di là? Dicono che, in comune con gli egizi, in queste antiche religioni, la tomba a somiglianza della casa, con tutti gli oggetti che al morto erano serviti da vivo, avessero la funzione in qualche modo di preservarne l’individualità, e di acquietarlo. Allora tu che ne dici?
- Non dobbiamo dimenticare che questi signori etruschi erano ricchi possidenti terrieri e commercianti, guerrieri e dominatori di mari. Penso che nell’al di là volessero presentarsi al meglio.
- Come dire, far vedere chi erano anche a chi stava nell’al di là?
- Pressappoco.
- Ci può stare. E nello stesso tempo ricordarlo a che rimaneva, ai vivi! Perché è vero che le tombe venivano chiuse con tutti i loro ricchi corredi, e così ai morti non mancava nulla per banchettare, ma le strade e le piazze delle città dei morti dovevano popolarsi in occasione di feste e ricorrenze. La posizione stessa delle necropoli, spesso di fronte alle città dei vivi, quasi a gareggiare con loro.

venerdì 4 luglio 2008

Dov'era Tarquinia

Si risvegliarono in un agriturismo vicino al mare, quel mare che Tarquinia dominò da un po’ più da lontano di Cere. Ciò che più rimase nei loro occhi di quel viaggio a Tarquinia, sopra tutto quello che videro al museo, e ci rimasero tre ore, fu la vista del pianoro dove dovette sorgere la vera Tarquinia etrusca, esattamente di fronte alla città attuale.
Questo pianoro era deserto e perciò splendido nell’aperta campagna, si opponeva con la sua maestosa nudità alle torri e i campanili della città attuale, la quale stava proprio su quella che fu invece la città dei morti della Tarquinia etrusca.
Sarà stato perché era primavera, e le terre intorno erano di tutti i toni del verde, su cui sembravano disegnati i grigi archi dell’acquedotto medievale – finalmente non c’era una casa intorno - e i finocchi selvatici, alti ai bordi della strada bianca che conduce alla Civita, sembravano, con le loro gialle ombrella fiorite, lampade già accese nel tardo pomeriggio. Il mare in fondo all’orizzonte. Sarà stato per quel senso d’infinito che dà proprio il pensare, forse per quella faccenda degli opposti che si richiamano, a qualcosa di grande che non c’è più, che appunto è finito.
Dopo Tarquinia però sentirono la necessità in qualche modo di fare il punto della situazione, tra pappardelle al cinghiale e bistecche rigorosamente ai ferri.
La visita al museo era stata faticosa, per la quantità delle cose viste ma aveva sciolto alcuni nodi. Quel giorno a Tarquinia c’era la fiera perché ricorreva una festività e la strada principale che sale verso il belvedere era stipata di bancarelle. Rispetto ai mercatini settimali paesani e cittadini, c’era una gran quantità di banchi di cibarie, con salumi formaggi, e dolciumi, che si dichiaravano nelle loro insegne “siciliani” – compaiono sempre dolci “siciliani” nelle pasticcerie dell’Etruria meridionale - umbri, marchigiani, abbruzzesi. Un compendio insomma delle italiche genti con cui gli etruschi commerciavano. Anche il museo aveva subito l’assalto di una moltitudine di persone, intere famiglie coi bambi piccoli che invadevano le logge di Palazzo Vitelleschi.
- Ora abbiamo compreso la differenza che corre tra le anfore greche e quelle etrusche - osservò Daniele riandando col pensiero a quell’interminabile serie di vetrine che le contenevano. L’esattezza “razionale” delle prime, l’arruffatezza insopprimibile della figurazione nelle seconde, con il prevalere di teste, e l’esuberanza di qualche fogliame che interferiva spesso con le scene mitologiche rappresentate.
- E avevano perfino loro artigiani nelle fabbriche greche perché le facessero secondo il loro gusto!
Al piano terra del museo di Tarquinia nelle prime sale c’è l’intera ricostruzione di una tomba e quindi gli elementi archittetonici caratteristici delle tombe più antiche orientalizzanti, sfingi e quei lastroni a scaletta che dovevano forse servire da porte ma anche da scale se poggiati inclinati, con i motivi decorativi propri dell’orientalizzante. Poi si succedono sale colme di sarcofagi, ma questi sono più tardi, d’età classica ed ellenistica, perché nelle fasi precedenti della storia etrusca i defunti erano, generalmente, posti nelle tombe distesi sui letti di pietra. Forse in particolare per le donne, qualche volta i letti erano scolpiti entro le urne di sarcofagi. E sui sarcofagi i defunti erano dapprima effigiati sdraiati, appena un po’ di fianco, poi nella cosiddetta posizione recumbente, cioè come quella dei banchettanti nel triclinio: ultima, contratta, evocazione, insieme ai permanenti corredi di anfore e coppe, dei fastosi banchetti funebri effigiati nei tempi più antichi, e poi non più. Sui lati dei sarcofagi, infatti, le scene ora rappresentate sono quelle mitologiche, in specie mischie di battaglie. Ci sono sempre i leoni che azzanano i cervi, simbolo della morte ma anche dei due poli della dinamica della vita. C’è sempre una simbologia da rintracciare nelle figurazioni etrusche! Poi, proprio alla fine, le scene sui sarcofagi rappresentano solo e sempre lunghi e tristi cortei che accompagnavano il defunto.

(continua)

Bomarzo. Mostri o alieni?

Il mostro di pietra con la bocca spalancata sembrava bearsi della sua terribilità ed incurante dei visitatori. Trovarono un posto dove stare un po’ tranquilli a chiacchierare.
- Non ci sarà un filo che unisce questi mostri a certe raffigurazioni etrusche? - Cristina aveva preso a tormentare i fili d’erba.
Daniele lasciò che a rispondere fosse la sua faccia, cioè assunse, come spesso gli accadeva, pensò Cristina, le sembianze dell’indecifrabile. Meno facilmente si lasciava andare a quelle supposizioni che a lei piacevano tanto.
- Pensavo agli animali mostruosi…
- La loro religione manteneva aspetti primitivi, con divinità che potevano essere ostili e minacciose, oppure benigne, che comunque sovrastavano gli uomini.
- I greci hanno razionalizzato queste paure antropomorfizzando le divinità, cioè rendendendole simili a noi.
- Pressappoco.
- Invece gli etruschi riuscivano a pensare solo di poter interpretare i segni divini. Tutto intorno a loro, dal cielo al fegato della pecora, era un unico cosmo fatto di segni da interpretare.
- E quindi di simboli.
- Allora anche gli animali mostruosi sono simboli: il leone con la testa di capra e la coda di serpente, che è la chimera, riunirebbe in sé i poli contrari, le forze, gli elementi vitali.
Ripensavo a Paolo – continuò Cristina - quando stavamo al museo di Trevignano, sedotto da un marmo bianco romano piuttosto che da tutti quei buccheri neri con quelle figurine grottesche incise negli steli di sostegno alle coppe. Quanto è stato scritto sull’inorganicità dell’arte etrusca rispetto a quella greca, il loro sovraccaricare di decorazioni, i manici degli oggetti affollati di statuine… ecco penso che se gli etruschi ricercavano segni e deponevano simboli questo era primario nella realizzazione degli oggetti, s’imponeva alla forma e all’uso, all’arte stessa. I simboli si mettono dove meglio si vedono. Come le statue sul tetto dei templi.
Daniele taceva e Cristina pensò che acconsentisse.
Le venne in mente H. P. Lovecraft e il suo “Ciclo di Cthulhu”: gli antichi come alieni, orridi mostri venuti dalle stelle.
Daniele aveva chiuso gli occhi contro il sole e sorrideva che sembrava addormentato. Lei continuò a parlare, ma ebbe cura di abbassare la voce:
- Mi è piaciuto in “Guerre Stellari” l’episodio in cui compare Harrison Ford, il porto spaziale dove circolano esseri dalle forme più stravaganti. Un futuro nello spazio all’insegna della biodiversità. Lo stesso principio di vita diversificatosi in ogni modo nell’universo e tutte le forme di vita evolutesi più o meno in pace e comunicanti tra loro.
Le venne infine in mente un essere a tre teste, che ebbe il potere di farla tacere, ma si trasformò in un attimo nell’incipit di un racconto che Cristina si provò ad immaginare affondando nell'erba del parco di Bomarzo.

Un altro prologo: il racconto di Cristina, bozza di una saga stellare.
"L’essere a tre teste atterrava nello spazioporto della grande capitale intergalattica, nell’inconfondibile modo bizzarro dei tre-teste. Il comandante Polifactor si sorprese a pensare, seguendone la traiettoria:
- Difficile che i treteste affrontino una cosa in maniera lineare.
Si preparò a scendere per ricevere quell’ultima delegazione finalmente arrivata su Trantor. Prese con una mano la cartella luminosa; con un’altra il dono per l'ospite, scelto e procurato personalmente dal Presidente Thefarie Velianas, una statuetta di una lega primordiale, il bronzo, che proveniva come le altre già consegnate, dalla Terra - pare che adornassero le tombe di una popolazione poi scomparsa:
- Scelta piena di significato - si disse il comandante, pensando che la Terra e il suo futuro erano il motivo principale della riunione.
Con la terza mano prese la scatola dei contatti, con la quarta… Si fermò bruscamente. Ricordò a se stesso che non doveva approffitare di fronte agli ospiti delle prerogative dei multimano, per non imbarazzarli.".

Tuscania

Fuggirono a Tuscania, perla, o anfora preziosa, dell’Etruria meridionale. La vista di Tuscania con le sue mura, e la vista da Tuscania, del paesaggio intorno, la campagna intatta, gli avanzi del castello sul colle Rivellino, un tempo congiunto dalla linea continua delle mura, e le grandi chiese di San Pietro e Santa Maria Maggiore, sono entrambe incantevoli. Guardando questo paesaggio che si andava spegnendo nella sera cenarono in un ristorantino nei pressi delle mura.
Il cortile-atrio dell’albergo era addobbato con un tentaggio a strisce verticali bianche e rosse che formava la cupola del tetto e le pareti. Poteva richiamare la tomba dipinta di Tarquinia, quella “del cacciatore” – perché le tombe dipinte di Tarquinia avevano il soffitto dipinto come un tappeto, che doveva evocare la tenda dove si svolgevano le cerimonie funebri - così come un arredo medievale. Quanto di etrusco, del resto, era travasato nel nostro medioevo, nelle decorazioni, negli strani animali che popolano le chiese romaniche, palazzi e fontane ornamentali? Anche le carni rigorosamente alla brace di questo stomaco interno della Tuscia, esibito da tutti i ristoranti della zona, è un filo, abbrustolito, che rimanda agli etruschi.
Questo si dissero nel chiacchiericcio che accompagnò la loro salita in stanza. E quando finalmente chiusero gli occhi per addormentarsi, quando le immagini che più ci hanno colpito in una giornata all’aria aperta tornano prepotentemente sulla nostra retina, Cristina vide sovrapporsi all’immagine del compagno quella dei cavalieri con le armature luccicanti al sole, le piume degli elmi e i mantelli colorati, caracollare sui loro cavalli nella discesa del monte Rivellino, lasciandosi alle spalle le mura merlate che sebbene diroccate, abitavano ancora. Nel sogno di Daniele invece era probabile che si materializzasse uno di quei casolari da lui scelti a propria dimora ideale.
Al museo di Tuscania, la mattina dopo, mentre riposavano seduti nel chiostro, dopo la visita alla città, elegante e tranquilla, anche se nulla di paragonabile all’antico splendore, s’accorsero di avere un altro compagno nella loro strada. La sede del museo da poco risistemata era stato un convento francescano e alzando gli occhi alle pareti del chiostro Daniele e Cristina riconobbero nelle parti rimaste degli affreschi, nel bianco della recente dipintura, la città di Tuscania e le immagini del grande santo medievale che, come lessero poi, qui aveva compiuto dei miracoli. Non c’era borgo visitato dove mancasse una chiesa, e spesso la più importante, a lui dedicata.
- Siamo in buona compagnia – si dissero.
Il museo era di recentissima sistemazione. L’entrata era gratuita ma v’incontrarono solo un altro visitatore. Al piano terra li accolsero i sarcofagi di Tuscania, i più antichi in pietra di nenfro, simili, ma meno importanti, a quelli di Tarquinia, dalla cui influenza discendeva Tuscania, con un corredo di oggetti in bronzo, recuperato perché era stato un bottino dimenticato nei pressi delle tombe.
I più recenti sarcofagi di terracotta, caratteristici di Tuscania, sono collocati nelle ultime sale al piano di sopra. In questo piano c’e un materiale più vario e didattico. Tavole illustrative, fotografie, modellini di tombe e i corredi di esse ritrovati nelle diverse necropoli che circondano la città.
Dal periodo iniziale, orientalizzante la storia etrusca passa, nella sistemazione degli storici, all’età arcaica e poi a quella classica ed ellenistica. La parabola degli etruschi si conclude con la parola romanizzazione. Ci furono delle battaglie. Veio distrutta nel 396. La vittoria di Tarquinia, che sacrificò più di trecento prigionieri romani, nel 358. La vittoria di Roma su Tarquinia nel 351. La battaglia di Sentino, nel 295, fu l’inizio della fine. L’anno dopo cadeva Roselle, più a nord nella maremma toscana. Diverse città etrusche ora acquiescenti ora alleate con Roma. Un’altra battaglia tra Orte e Bomarzo, al lago Vadimone nel 283. Un trionfo su Volsinii e Vulci nel 280, Cere piegata nel 273. Infine quando Volsinii, cioè Orvieto, pensò bene di chiamare in aiuto i Romani contro le rivolte servili ne fu distrutta nel 265, Falerii nel 241. I Romani che toglievano metà delle terre alle città etrusche e vi fondavano le loro nuove colonie. Quelle terre, i confini su cui era nata la nazione etrusca, che erano state il principale oggetto tutelato dai riti, dalle cerimonie, dalla cosiddetta discipina etrusca. Perugia abbattuta da Augusto.
Al piano superiore del museo di Tuscania i corredi delle tombe erano esposti secondo le diverse fasi della storia etrusca:
- Perché cominci da qui?
- Leggevo. C’è scritto “Età arcaica”
- L’Orientalizzante è laggiù, l’Ellenismo, di quà.
- Tu invece vai di quà e di là.
- Ti sei innervosito?
C’era, nel settore dell’orientalizzante, il modellino ricostruito di una tomba che era una bellissima casa con le colonne davanti e tre porte, ma naturalmente una sola era vera. Cristina e Daniele si fecero attenti, di nuovo uniti e solidali. Sul tetto la statua di un piccolo animale, sembrava una scimmietta. E c’erano le lastre fittili - di terracotta cioè – un tempo colorate ed ora scolorite, poste sotto il tetto, che avevano adornato i loro templi dei vivi così come le loro tombe a forma di templi. Che cosa era riprodotto nelle lastre delle città dei morti? Scene di banchetti eterni, effiggiati per l’eternità. Daniele e Cristina riconobbero i banchettanti sdraiati sui letti, e sotto i letti vi erano costantemente dei bassi tavolini e cani o servi a loro volta sdraiati. Tra i letti i servi che recavano anfore per le libagioni o strumenti musicali. Altre scene riproducevano file di danzatori che pestavano i piedi, con gambe e braccia fortemente contorti rispetto al busto, e anche le mani.
- Questi banchetti ci rappresentano la volontà di rappresentarsi del mondo etrusco, dei suoi ricchi signori, quando esso era più se stesso. Quando era giovane, nella crescita e nella fase maggiore della sua ricchezza e potenza.
- Prima che si diffondessero i miti e le divinità antropomorfiche greche.
- Prima che decadessero.
- E tutte quelle anfore, e soprattutto coppe e bicchieri, perché potessero banchettare anche da morti. E i mobiletti per riporre e appendere “cicchere e bicchier”.
Arrivarono infine presso i sarcofagi di terracotta.
Questi sarcofagi di terracotta, tarda produzione delle fabbriche di Tuscania, erano lavorati in tre parti che poi venivano ricomposte, la parte corrispondente all’estremita inferiore del corpo appiattita, poco lavorata, mentre nella testa, inserita per ultima, l’artigiano imprimeva al volto i caratteri del defunto, ne faceva dunque il ritratto, secondo una tendenza comune a tutta l’Etruria nelle fasi conclusive della sua civiltà, da cui si vede poi derivare la ritrattistica romana.
- Dal banchetto funebre, ai ritratti dei sarcofagi di terracotta, c’è un percorso che dobbiamo ricostruire – sentenziò Cristina.

Norchia. Nelle case dei morti

Avevano infine trovato l’indicazione per Norchia. Un viottolo di campagna che quando arrivarono c’era un cartello scolorito dal sole con la mappa della necropoli che si leggeva appena e un percorso da Indiana Jones che sembrava ridersela di loro nell’opacità del primo pomeriggio. La campagna, proprio la superficie piana, di colpo terminava ed iniziavano i gradini per scendere tra le tombe rupestri scolpite nella parte vertiginosa di tufo. Non c’era anima viva. Solo il vento ogni tanto. Cominciarono a scendere. Ancora una volta sentirono di trovarsi in un altro mondo. La vegetazione, arbusti ed erbe, la faceva da padrone, e sembrava disturbata dalla loro presenza, ma era ormai custode di tombe, anzi di case, e templi vuoti. Tombe a forma di case e templi perché molto probabilmente all’origine la casa del principe coincideva con il luogo di culto.
Scendevano e scivolavano, inciampavano e risalivano. Forse il destino degli etruschi è metafora dei vani sforzi del genere umano verso l’eternità e la memoria di sé, eppure queste dimore dell’al di là sono rimaste effettivamente il segno più tangibile dell’antica civiltà, proprio perché scolpite nella roccia tufacea:
- In qualche modo questi loro sforzi per prolungare la vita sulla terra, sono riusciti visto che queste sono le testimonianze maggiori che ci hanno lasciato!
- La maggior parte degli edifici delle loro città doveva essere di legno.
- Non è facile provarsi a comprendere oggi la loro mentalità, la loro religione. A tratti mi sembra di afferrarle ma è difficile coglierle realmente attraverso quanto ci rimane dell’immagine che hanno voluto lasciare di sé. Forse è che così scavate nella parete della roccia, le tombe di questa necropoli fanno più impressione.
Stavano uscendo all’aperto e Daniele che la precedeva si volse un attimo indietro, stagliandosi controluce:
- Ti porto via.
Molto probabilmente Daniele non aveva detto nulla. C’era stato solo un fruscio di vento.

Cittadine d'Etruria

Cittadine d’Etruria.
Infilarono uno dietro l’altro Veiano, Barbarano e Vetralla. Barbarano sembrava perfetto, con i due lati lunghi, sulla cresta tufacea alla confluenza di due corsi d’acqua, e il lato corto, espugnabile, con le mura e la porta intatte, torri quadrate e semicircolari. Dentro questi centri storici, Cristina si gettava per vicoli e stradine, curiosa di tutto. Daniele restava indietro, a lui bastava il colpo d’occhio, la vista generale da cui dedurre cosa c’era di più importante da vedere. Erano diversi. Cristina da tutti i particolari che raccoglieva lentamente ricostruiva ciò che Daniele faceva mostra di possedere già.
Esausti, nelle prime ore pomeridiane divorarono dei panini in macchina, le portiere aperte sulla campagna, baci alla birra.
- Guarda quel casolare laggiù.
- Un altro posto ideale per fermarsi, vero?
Una variante un po’ meno tosta alla fuga sull’Appennino, che si rivelava un pensiero tenace di Daniele, l’ennesino luogo ideale che additava alla sua compagna.
- Come siamo diversi – ripensò tra sé, Cristina. Lui trovava luoghi di cui appropriarsi, a lei piaceva guardarli dall’esterno e limitarsi ad immaginare come sarebbe o com’era stata la vita dentro e intorno ad essi.
- Quanti centri che un tempo hanno avuto la loro importanza a così poca distanza l’uno dall’altro.
- Questa era l’Etruria.
- Adesso sono solo borghi rurali.
- Proprio l’attività contadina, le risorse della campagna, deve aver permesso loro di non morire e, tutto sommato, resistere fino ad oggi.
- Ancora un’eredità etrusca allora?
- Direi proprio di sì.
- Oggi le grandi città non hanno più confini, con le periferie che si estendono indefinitamente, invece qui ancora possiamo entrare e uscire, attraversando le porte, varcandone le mura. C’è un dentro e fuori che possiamo percepire.
- Con un colpo d’occhio!
- E già. Vediamo la città, intorno la campagna coltivata e poi oltre la natura lasciata a se stessa. C’è come un ordine, un senso. Proprio perché c’è la città con le sue mura, riconosciamo la natura, il paesaggio fuori di essa.
- E’ stato detto…
- Ma ce lo siamo dimenticato, oppure è che diventa un’esperienza lontana, sempre meno percepibile.

Chiese d'Etruria

Varcarono anche qui la porta d’entrata e camminando raggiunsero la chiesa di San Francesco. Già un’altra chiesa era stata per loro un’esperienza speciale. A Sutri la sera precedente avevano visto la piccola facciata disegnarsi nel grande, complesso edificio che s’innestava sulle mura di qua e al di là della porta nord. Ai lati due piante di camelia rosa acceso.
L’entrare in una chiesa, è sempre un’esperienza particolare. Cristina e Daniele pur percorrendo le vie degli etruschi, approfittavano sempre della visita delle tante chiese degli antichi borghi, un itinerario parallelo, che s'imponeva loro, come quella sera a Sutri. Dentro le nostre chiese, che hanno preso il posto degli antichi santuari, c’è uno spazio sempre fortemente caratterizzato, denso di atmosfera cui, non solo il fedele, ma anche il pellegrino o perfino il visitatore distratto o casuale non possono sfuggire. Cristina ne aveva notato l’effetto sugli amici stranieri che si era trovata ad accompagnare. Come fossero risucchiati da quell’atmosfera, sedevano lentamente, lasciandosi assorbire:
- E’ perché noi non abbiamo ambienti simili – le aveva detto Janet, americana di New York.
Così sedettero tra le panche deserte. Dentro, un delizioso canto di poche voci femminili li accolse. Non solo il canto, tutto all’interno era discreta grazia femminile, che le camelie fuori avevano annunciato: la pulizia, finalmente un pavimento lucidissimo – pensiero di Cristina - l’ordine, la cura e la composizione graziosa dei mazzetti di fiori all’altare e alle immagini sacre. Le voci scendevano dal palco dell’organo sopra la porta d’entrata. Un’isola, un oasi mantenuta dalle suore carmelitane, come lessero, nei fogli di preghiera appesi sull’entrata. Quando si voltarono per uscire una testa dalla balconata s’era affacciata verso di loro. Videro poi che le suore, cinque in tutto, avevano il loro sito web.
Nella Chiesa di San Francesco a Capranica fu una tomba - segno caratterizzante del loro viaggiare verso gli Etruschi - ad attrarre la loro attenzione. Era il sepolcro degli Anguillara. Ancora una volta – dopo il sarcofago degli sposi - trovavano un’eccezione all’individualità della sepoltura. Erano stati due fratelli, morti a distanza di due anni l’uno dall’altro, che si volle riunire. Lo scultore aveva così scolpito i corpi d’entrambi allungati sulla lastra tombale.
- Un’altra eccezione alla sepoltura individuale - commentava Cristina, all’aperto.
- E’ interessante trovare queste eccezioni dovute al riconoscimento di un forte legame occorso tra i vivi.

Sutri, Minas Tirith dell'Etruria meridionale

Dalla civita etrusca di Sabate, ora occupata da una sommità boscosa, terreno incolto e qualche villetta costruita, continuarono la strada verso nord che, secondo le indicazioni ricevute, li avrebbe portati a Sutri, questa volta l’odierno tracciato coincidendo con l’antico etrusco.
A Sutri entrarono dalla porta a nord, sulla cima del colle, ma idealmente la ripercorsero uscendo e rientrando dalla porta vecchia giù sulla via Cassia, antichissima, coi blocconi di tufo etrusco–romani e l’immagine di Saturno effigiata, araldico simbolo della città.
- In questi luoghi – pensò Cristina – ha ancora un significato materiale l’espressione di varcare i confini della città.
Ne risalirono le rampe fino al vescovado, gustandone l’intatta struttura urbana, una tufacea Minas Tirith dell’Etruria meridionale. Porta d’Etruria, la definirono i romani, espugnandola.
La notte alloggiarono nelle vicinanze. Cristina sognò di trovarsi ancora a Veio ed imbruniva. Nel sogno si erano seduti sull’erba e poi allungati, come in un sarcofago, avevano sentito l’umidità della terra. Ma non erano soli, come nella Death Valley di “Zabrinskie point” c’era un numero indefinito di coppie che, intorno a loro, si rotolava nel parco di Veio.
L’indomani, la strada ripresa si snodava agilmente tra l’emergenza di Sutri, a destra e il mondo silente della dimensione archeologica sul lato sinistro, l’anfiteatro, tombe e cunicoli scavati nella roccia. Guadagnarono poi la salita di Capranica.

L'antica Sabate

L’antica Sabate
Attraversarono la via Cassia e raggiunsero per una strada moderna l’abitato di Trevignano Romano. Un’altra via, più interna, era stata la strada etrusca che collegava quella che dovette essere l’antica Sabate a Falerii e a Veio. La necropoli di Trevignano fu scoperta negli anni Sessanta. Nel piano terra del Palazzo Comunale un piccolo ma ben sistemato museo ne espone i reperti.
Entrarono insieme ad un’altra coppia molto più anziana. L’operatrice museale, con una mantellina rosa all’uncinetto appuntata e una collana di perline colorate, si fece loro incontro. Cristina e Daniele non trovarono in alcun altro luogo una così cordiale e volenterosa accoglienza.
La storia della necropoli trevignanese riproduce in piccolo quella dei più grandi ed importanti centri dell’Etruria meridionale. Alcuni ritrovamenti risalgono all’ottavo secolo, e sono sepolture ad incinerazione, in vasi biconici: tipiche sepolture villanoviane. Gli archeologi riferiscono che la cultura dei villanoviani si caratterizzò, dal IX all’VIII secolo, per un concentrarsi in villaggi di capanne e per seppellire i loro morti col metodo dell’incinerazione. Si parla certamente di Etruschi a partire dalla fine dell’ottavo secolo, circa il 730, quando in generale si passò dalla sepoltura ad incinerazione all’inumazione in grandi tombe a camera e i villaggi cominciarono a diventare delle città, ma i luoghi dove avvennero questi cambiamenti furono esattamente gli stessi. Non ci fu salto, discontinuità. Insomma intorno alla fine dell’ottavo secolo i villanoviani diventarono gli etruschi. E nel costruire le loro tombe simili alle loro case, con un dromos, due stanze ai lati e in fondo una camera singola, le decorarono e le arredarono di oggetti di prestigio, ceramiche, bronzi ed ori che per il tipo di decorazione si riconobbero essere dello stile orientalizzante, una moda internazionale proveniente dall’oriente del Mediterraneo: palmette e fiori di loto, animali fantastici, grifi, sfingi e chimere, dal contorno sinuoso. Ragion per cui il periodo più antico della storia etrusca fu detto orientalizzante. Erano gli etruschi essi stessi venuti dall’oriente e sovrappostisi ai villanoviani che qui avevano trovato? Oppure, furono le nascenti colonie greche, a cominciare da Ischia, a far conoscere i modi dell’oriente ai villanoviani, che se ne impossessarono tenacemente come nessun altro popolo dell’occidente mediterraneo? E i villanoviani non avevano raccolto già precedenti migrazioni nordiche? L’elmo puntuto e con i lati membranati che fa da coperchio ai cinerari villanoviani è così diverso dal rotondo elmo etrusco! E’ questa, riguardante le origini, solo una parte degli enigmi che gli etruschi ci hanno lasciato di sé.
Due tombe principesche del periodo orientalizzante riempiono con i loro corredi, tra cui due carri - o meglio le parti in ferro e in bronzo rimaste – un flabello - oggetto in bronzo, derivabile da un ventaglio originale di piume e tenuto in segno di prestigio intorno alla persona del principe - e dei cilindri di bronzo per contenere rotoli di scrittura, le sale del museo. Due coppie di anforone - come in coppie furono trovate le anfore attiche della “tomba dei vasi” nella necropoli di Cerveteri - buccheri, un calderone ornato con teste di cane, oggetti in bronzo e piccoli oggetti in oro tra cui fibbie e spille minute. Lungo una parete riposa nella sua urna di cristallo un guerriero etrusco, ritrovato in una tomba a fossa e qui posto a giacere col suo pane di terra. Ha lo scudo sopra i piedi, la spada e il pugnale, e una grande quantità di spille di bronzo che guarnivano le sue vesti perdute.
Su alcuni tavolini stanno pure esposti disegni dei bambini delle scuole e le loro imitazioni dei buccheri fatte con la plastilina. L'operatrice museale intrattenendosi con le due coppie di visitatori, che avevano notato i lavori dei bambini, raccontò loro dell'arguzia dei piccoli, che si erano presentatisi al museo con un vecchio ferro, sostenendo che potesse essere una tromba etrusca. L'analisi del pezzo aveva poi condotto alla conclusione che doveva più banalmente trattarsi di una vecchia ruota ruzza. I ragazzi non si erano forse neanche resi conto che l'attività didattica del museo li aveva resi capaci di fare uno scherzo erudito.
Paolo e Silvana, la coppia con cui avevano visitato il museo, si fermarono all’uscita con Cristina e Daniele. La visita li aveva soddisfatti, dissero. C’erano in quel punto due blocchi di marmo bianco di Carrara proveniente da Luni, di epoca romana. Paolo notò il bel motivo di spirali di pampini d’uva su uno di essi e ammiccò:
- Questo è romano eh?
E così Cristina avvertì in un sol attimo come le basi greco romane della nostra cultura, gli occhiali invisibili che portiamo, ostacolassero la nostra fruizione del mondo etrusco proprio nella sua originalità, e lo facevano perdente nel confronto. Eppure...Cristina seguì con lo sguardo la coppia che si allontanava: lui aveva affettuosamente cinto con il braccio la spalla di lei e lei gli stava porgendo qualcosa.
Avevano chiesto del luogo della città etrusca di cui non rimaneva alcuna traccia, e anche in questo la storia di Sabate era simile a quella di altre, più importanti, città dell’Etruria meridionale. Guadagnarono la salita alle spalle dell’odierno abitato, che portava al pianoro ipotizzato come luogo della civita etrusca: quando scesero dalla macchina e si guardarono intorno pensarono che non poteva che essere quello il luogo, per il fosso e il dirupo sui due lati, per l’orientamento da nord a sud. Infine, lo decretarono emotivamente perché la vista del lago e dei ruderi della Rocca degli Orsini, che avrebbe potuto essere l’arx della città, era maestoso e nello stesso tempo incantevole, e l’occhio poteva dominare il paesaggio fino alle alture più lontane.

A Civita Castellana, incrociando la carrozza di Goethe

Sul ponte Clementino di Civita Castellana uscirono nuovamente da se stessi per contemplare uniti il pauroso, vertiginoso e nello stesso tempo sublime, verticalismo dell’incisione tufacea. Avevano quasi litigato per trovarlo, immersi nel centro cittadino, Daniele voleva lasciar perdere e lei s’era incaponita.
Al castello, il forte Sangallo, ammirato dall’esterno, non era stato possibile sottrarsi all’ombra di Goethe che aveva scritto:

“Bellissima la vista dal castello: il monte Soratte, una massa calcarea che probabilmente fa parte della catena appenninica, si erge solitario e pittoresco”

Così aveva annotato nel suo "Viaggio in Italia", alle otto di sera del 28 ottobre 1786. Diretto a Roma, già fantasticando sulla sua meta, Goethe si era trovato a passare per l’antica Falerii e alla fine della giornata, aveva scritto quella pagina che Cristina, la sera prima della partenza con Daniele, aveva ritrovato. Viaggiando in carrozza, Goethe impareggiabilmente analizzava il paesaggio che gli si apriva alla vista così come il terreno sotto le ruote:

“ Si sale lungo le pendici di un monte che si direbbe di lava grigia; vi si trovano parecchi cristalli bianchi granatiformi. La strada che dal termine della salita conduce a Civita Castellana è della medesima pietra, resa ben liscia dal passaggio delle ruote.”

Di passaggio nel Lazio vulcanico, ne aveva colto rapidamente l’essenza:

“ Le zone vulcaniche sono molto più basse degli Appennini, e solo i corsi d’acqua, scorrendo impetuosi, le hanno incise creando rilievi e dirupi in forme stupendamente plastiche, roccioni a precipizio e un paesaggio tutto discontinuità e fratture.”

Cristina e Daniele invece si allontanavano dalla grande città, dal suo tessuto continuo, come quello della quotidianità, disponibili alla discontinuità e alle fratture non solo del paesaggio che affrontavano ma anche del tempo e dello spazio, nella dimensione del viaggio.

Nostalgia di Veio

Ora erano in viaggio e Veio era già alle loro spalle. Sulla strada statale è quasi inimmaginabile che sia esistita Veio. Perchè Veio è scomparsa, come Vulci, Volsinii, e tante altre. Il magnifico Apollo che, con altre divinità, dominava l’aere sul tetto del Tempio di Portonaccio, con quella sua baldanza non altrimenti che etrusca, è stato ridotto in un museo di quella Roma prima etrusca per i greci, poi troiana per gli etruschi – si vedano i dipinti della tomba “François” a Vulci - e quindi greca nel suo destino vittorioso che gli aruspici etruschi non seppero prevedere.
Per arrivare nel sito dove si sviluppò e crebbe uno dei maggiori e più antichi centri etruschi, occorre lasciare la strada consolare, svoltare a destra addentrandosi nell’agglomerato periferico, e quindi scivolare giù, con una serie di curve, dentro la forra laziale. Allora però si apre un altro mondo, un po’ come succede ad "Alice nel Paese delle meraviglie". Un paesaggio a tratti selvaggio, con cascatelle d’acqua tra i massi. Scendere e risalire per conquistare una pianura apparentemente a perdita d’occhio e solitaria: ad un tratto ritrovarsi in un mondo solare ed infinito. I forti contrasti, luci ed ombre del paesaggio etrusco. Gli scavi, chiusi, deserti.
La dimensione del viaggio è eccitante; è anzitutto uno stato mentale. Anche le cose o le azioni più comuni, come entrare in un negozio, comprare dei panini, sembrano diverse dal quotidiano se siamo in viaggio.
Queste cose qua e là pensava Cristina, seduta a fianco di Daniele che guidava. Certa scontrosità, lo stare ciascuno all’interno del proprio flusso di coscienza, si era di colpo interrotto quando avevano scoperto Veio, un senso dell’avventura che li aveva coinvolti. Ripartiti, nell’abitacolo di latta del loro mezzo di trasporto, erano pure rientrati nell’abitacolo della loro coscienza individuale.

Viaggio in Etruria meridionale


(Questa volta è l'intero racconto a puntate)

Prologo

A Villa Giulia.
S’incontrarono davanti al sarcofago degli Sposi, a Villa Giulia. Daniele aveva posato lo sguardo su quella massa reattiva di capelli che un fermaglio colorato non riusciva a contenere. Si avvicinò, qualcuno li urtò, si toccarono e quasi senza accorgersene si parlarono. Degli etruschi naturalmente e di quel monumento alla costanza della vita coniugale che avevano di fronte.
Poi lui la prese leggermente per i gomiti:
- Sono Daniele -.
Lei rimase stupita:
- Cristina - rispose dopo un attimo, sorridendo.
- Usciamo di qui.
Fuori l’aria primaverile era tiepida. Camminarono un poco e decisero di ritrovarsi.
Si ritrovarono, e si ritrovarono ancora.


A Piazza di Pietra.
Qualche tempo dopo, parlavano ancora degli Etruschi, a Piazza di Pietra, in un locale con comodi divanetti e la tappezzeria fiorita. Sul tavolino le tazze del the erano assediate dalle carte mal ripiegate, depliant, guide tristiche e opuscoli ma Cristina aveva mollato ogni cosa per gustare la pastiera napoletana. Era intanto entrata una giovane coppia. Erano altissimi e lei, così biondo chiaro, si era precipitata su uno dei divani e appena seduta, chiusi gli occhi, già dormiva. Al cameriere napoletano accorso per le prenotazioni non era parso vero di richiamarla, attirando l’attenzione sulla scena.
Daniele e Cristina ripresero a parlare del loro piccolo viaggio nell’Etruria meridionale. Qualche giorno di vacanza per entrambi da spendere sulle tracce degli antichi:
- L’ideale sarebbe l’Appennino – si sentì di rilanciare ad un tratto Daniele.
- Una fuga?
- La salvezza.
Per qualche istante gli etruschi tornarono alla loro polvere. Un’utopia bucolica e pastorale aleggiò fino a confondersi col vapore che saliva dalle tazze.
- Prima la Tuscia - risolse Cristina rimestando le carte sul tavolo.

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