giovedì 22 gennaio 2009

Obama chiude Guantanamo



L’importanza che il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha voluto dare a questa decisione, divulgando la bozza dell’ordine esecutivo che prevede la chiusura del carcere e di un altro che mette al bando la tortura, il giorno dopo del suo insediamento, taglia corto su presunte continuità con la precedente amministrazione.
Sto leggendo un libro di Nadine Gordimer “Un ospite d’onore”, 1970, e succede che la letteratura mi aiuti a mettere meglio a fuoco ciò che accade nel mondo. Un ex funzionario coloniale inglese, licenziato a suo tempo perché considerato a favore del movimento indipendentista africano e tornatosene perciò nella campagna inglese, viene invitato a tornare nel Paese che ha raggiunto l’indipendenza per partecipare ai festeggiamenti. Gli viene quindi offerto un’ incarico dal nuovo Governo, di occuparsi di riorganizzare l’istruzione pubblica. Per fare questo si pone in viaggio all’interno delle zone più povere da lui conosciute quando era funzionario del governo inglese. Sono arrivata, nella lettura, al punto in cui dà un passaggio casualmente ad un giovane e taciturno africano, del quale poco dopo viene a sapere che essendo un simpatizzante dell’opposizione, poiché il nuovo governo africano non ha saputo esprimere un’unità nazionale ed uno dei leader principali del movimento indipendentista è stato tagliato fuori e vuole appunto organizzare l’opposizione, è stato arrestato e tenuto “due mesi e diciassette giorni” in prigione, senza alcun ordine di arresto, senza processo. Chiede allora il protagonista:
- Ma a chi compete la responsabilità d'impartire un ordine del genere? E chi lo firma? La detenzione preventiva è stata abolita nel Paese. –
Il ragazzo è stato anche torturato.Tutto ciò fa nascere un grave conflitto morale nel protagonista, che teme che il capo del governo, da cui ha accettato l’incarico, sia direttamente coinvolto nell’illegalità e nell’ingiustizia di questa detenzione.
La legalità e la giustizia sono fondamentali per le democrazie moderne. L’America un tempo descritta e considerata come il luogo sia dal punto di vista della giustizia che degli affari della libera sopraffazione è invece stata capace di darsi regole che le hanno permesso di diventare un grande Paese, una democrazia moderna: una regola di questo Paese è stata che le regole vanno rispettate.
E’ molto bello che sia un Presidente d’origine africana a saper riaffermare e ricordare ciò agli americani.

martedì 20 gennaio 2009

Enciclopedia del ricordare, "Lessico familiare"



Nel cuore dell’antichissima città sollevata sulle sue alture a guardare il mare e i suoi templi, nell’androne del vecchio palazzo, dove c’erano solo due porte affrontate, i cui appartamenti erano a pianterreno sulla strada, e dalla parte opposta avevano i balconi perché la collina digradava, i ragazzini giocavano a palla. L’uno tirava il pallone contro il muro e chiamava quello che dopo di lui doveva calciarlo. Erano tre fratelli, due bambine e un maschietto, e s’erano inventati per l’occasione un nome ciascuno. Due erano quasi uguali, se non per la sillaba iniziale e il terzo invece era completamente diverso: Llacchera, Pillacchera e Tarlone. A questi soprannomi che avevano echeggiato insieme al rimbombo della palla nel vecchio androne dell’antichissima città, che ben presto lasciarono per trasferirsi altrove, non pensarono più o anche se qualche volta essi tornavano nella loro mente non li pronunciarono più.
Nella loro nuova casa nella città per loro nuova venne a raggiungerli una sorellina. Siccome i suoi fratelli erano molto più grandi di lei la piccola cresceva soprattutto a contatto con la madre che le raccontava tante favole, le più belle e famose, che si faceva ripetere appena già finite, ma soprattutto le raccontava storie di quella città che avevano lasciato, dove non sarebbe più tornata. I suoi fratelli invece non avevano tempo per giocare con lei e raccontarle le loro storie. La madre le raccontava soprattutto non della casa con l’androne dove i bambini avevano giocato per non stare sulla strada, ma della casa del nonno, del giardino, dei fiori che il nonno coltivava, della rosa bianca Regina delle Nevi che fioriva in inverno e che alla bambina sembrava della stessa sostanza di quelle delle favole. Le raccontava della sua infanzia e della sua giovinezza, di tutti quei parenti, ognuno con una storia interessante e complicata come un romanzo, ogni volta uno da mettere in primo piano.
La bambina cresceva e sapeva tutte quelle storie a memoria ma poi si stancò di stare ad ascoltare sua madre e alla fine s’accorse che non le ricordava più tanto bene. Le ricordava sì ma senza quel nitore con cui le aveva sapute immaginare da bambina e mentre sua madre invecchiava questo era uno dei suoi crucci segreti, di non aver saputo ritenere come avrebbe voluto i ricordi che lei le aveva raccontato.
Ma la madre raccontava sempre della casa del nonno e della sua gioventù in quella città lontana e quando la sua figlia minore si sposò anche suo marito conobbe quelle storie. Eppure anche quelle volte la figlia si distraeva e non riusciva più a riappropriarsi di quei ricordi come li aveva posseduti quand’era bambina. Ripensandoci però la figlia si persuadeva che i ricordi della sua infanzia erano incastonati nei racconti di sua madre.
Molto tempo dopo durante il quale i quattro fratelli s’erano fatti ognuno la loro famiglia e rimasti senza i genitori, accadde che due di loro litigarono e non si parlarono per diversi anni. Il tempo e la malattia di uno alla fine ebbero la meglio sull’ostilità, l’incomprensione che si era creata tra loro. Allora il fratello più grande riprese il vecchio soprannome che si era dato quand’era bambino, Tarlone - ma che razza di nome è? - disse sua figlia quando lo sentì - e anche le sorelle si ricordarono il loro, LLacchera e Pillacchera, e anche se la sorella più piccola, quella con cui aveva litigato, allora non era ancora nata, si riunirono tutti idealmente nell’androne di quel vecchio palazzo di quella città antichissima sollevata a guardare il mare.
E la cosa più strana è che un giorno si misero insieme a cercare di ricostruire com’era fatto il giardino del nonno. E finalmente alla loro sorella più piccola sembrò che la nebbia che avvolgeva quei ricordi si dissolvesse e le cose descritte da sua madre si ricolorassero.
Il giardino del nonno veniva definito come un giardino pensile. Un trapezio allungato, compreso tra la casa e i muri di cinta. Il muro esterno più lungo, costeggiava una stradina che scendeva verso il basso, poiché tutta la città digradava precipitosamente dalle sue alture verso il mare lontano pochi chilometri, quel mare antichissimo pure lui colmo di storia. Il lato più stretto era quello che dava sul mare, e perciò a sud ovest, e però s’alzava sulla strada e le case di sotto a diventare una terrazza con la ringhiera, mentre il muro che si ricongiungeva alla casa, la quale stava sul lato opposto alla terrazza, chiudeva sul dirupo della collina, aspro in quel punto. Il portone, anzi “l’entrata” si trovava a capo della stradina, poco dopo avervi svoltato dalla strada principale. Entrati, un cortile ampio lastricato di mattoni rossi, rialzato ai bordi, così da formare a destra lungo il muro di casa come un sedile. A sinistra c’erano dei vasi sul bordo rialzato a chiudere quel lato del cortile e quindi da terra i tralci della vite che s’alzavano a fare da pergola – sulla pergola i tre fratelli più grandi erano tutti d’accordo-. Una prima porta, a vetri, di uno stanzone profondo che aveva il muro esterno ad angolo sulla stradina, s’apriva a destra, poi la casa faceva angolo e di fronte, in fondo al cortile, c’era l‘ingresso principale, che immetteva nel soggiorno-salotto, da cui si arrivava in avanti alla cucina e sul retro alle camere da letto. Succedeva che man mano che la casa si precisava nella sua struttura e nei suoi rapporti con il giardino la figlia più piccola poteva ricollocarvi sua madre, e i nonni e gli zii, e recuperare molto delle storie che aveva sentito; ritrovava sua madre e il sentimento affettivo che la legava a lei nei momenti in cui l’ aveva ascoltata da bambina.
Appena dentro il giardino, a sinistra, c’era una grande vasca attaccata al muro, piena di pesci, che quando s’entrava accoglieva con una zaffata d’umido e i bambini dovevano arrampicarcisi per riuscire a vedere i pesci. Decisamente la vasca era la cosa che i fratelli ricordavano meglio, anche la più piccola che non l’aveva mai vista. Dalla casa alcuni gradini scendevano nel giardino vero e proprio con i vialetti segnati dalle siepi di mortella profumata, le rose e gli alberi da frutta: nespoli, melograni, meli cotogni e mandarini con i frutti “grossi così”. Un alto carrubo stava vicino alla cucina. Si poteva ritornare alla fontana all’entrata o, percorrendo il sentiero principale che era al centro del giardino, salire dritti alla terrazza, tra due muri di gelsomino. C’era un contrasto vivace tra il giardino così fitto di alberi e piante, quasi cupo e però riposante, che insieme ala pergola lasciava in ombra le stanze della casa, tutta a pianterreno, e la terrazza assolata, lastricata di mattoni anch’essa, con maioliche azzurre alla parete e piena di rose alla ringhiera. Come doveva essere stata magnifica la vista del mare da quella terrazza, e com’era stata decantata, con quel mare così azzurro quand’era azzurro, con la curva della costa così ampia e maestosa da far distendere l’anima come in un lungo respiro.
Ma in quel giardino c’erano ancora altre attrazioni. Lo stanzone con la porta a vetri sul lato del cortile conteneva le statue della Madonna addolorata e del Cristo morto a grandezza naturale. Stavano sempre lì sopra una tavola rialzata tutto l’anno, e la porta a vetri l’incorniciava come in una bacheca. Il Venerdì Santo però erano portati in processione e la stanza veniva addobbata affinché la gente potesse poi entrare a vedere quella sacra rappresentazione. Un po’ di quella devozione, del gusto delle statue di santi, la madre l’aveva portato con sé lontano da quella città e dalla casa paterna tanto amata. Con quelle statuette di santi la figlia minore aveva anche giocato e a qualcuna si era staccata la testa, qualcuna era andata in frantumi, così della grande grotta della Madonna di Lourdes che in basso aveva l’incavo quadrato dove mettere Santa Bernadette era rimasta solo la grotta che poi fu donata al vicino convento di suore. Il “Cuore di Gesù”, nel suo tempietto di metallo, si era salvato, la cupola di vetro del tempietto no. Ma soprattutto era rimasto Il Bambinello nella sua teca di legno con il vetro su tre lati. L’aveva vinto uno zio ad una riffa e l’aveva portato alla sorella in corteo con gli amici per le strade della città. Poi gli era stata fatta la vetrina di legno per custodirlo. Era stato il santuario della famiglia e quando si pensò che un giorno sarebbe stato anche lui mandato alle suore la figlia più piccola aveva detto: – Allora lo prendo io. – Così sua madre quando stava per morire ma aveva ancora la forza di parlare, tra le altre cose affermò che il bambinello doveva restare a quella sua figliola.
Un’altra particolarità della casa del nonno era l’uccelliera cui si accedeva da una botola nel pavimento della cucina ma i fratelli congetturavano che quell’ambiente dovesse avere una anche portafinestra che dava all’esterno, poiché le gabbie la mattina dovevano essere portate all’aperto e nel pomeriggio riportate nella camera e coperte con un panno e attraverso la botola sarebbe stato troppo faticoso. Secondo lo zio, il nonno poteva considerarsi un vero ornitologo, infatti allevava centinaia d’uccelli, in particolare passeriformi, delle famiglie dei fringuelli e dei tordi e cioè cardellini, passeri canarini, ciuffolotti, verdoni, usignoli ed altre specie che incrociava producendo nuove razze. Era soprattutto interessato agli uccelli canori ed era orgoglioso di aver selezionato un campione del canto che era chiamato mastro cantore, per la qualcosa ebbe a vedersela col vescovo, forestiero, venuto da una lontana regione del nord, che se n’era invaghito e glielo aveva richiesto.
E dunque nel giardino del nonno il profumo dei fiori e dei frutti doveva essere accompagnato dal concerto degli uccelli canori.
Quando il nonno morì la casa fu venduta.
Poi vollero ingrandire la città e costruirono alti palazzoni che ne modificarono l’immagine esterna, e chiusero la vista del mare a molte delle vecchie case della città e anche al giardino del nonno. La terrazza sparì. I grattacieli moderni, come alberi giganteschi a cui fosse stato fatto un brutto incantesimo e trasformati in parallelepipedi di cemento pieni di buchi, affondavano le loro radici giù, giù in fondo alla nuova strada e all’altezza della stradina se ne vedeva solo la parte superiore che ancora sovrastava dall’alto le vecchie case.
I fratelli ciascuno per suo conto avevano, negli anni, fatto visita, chi più volte, all’antichissima città, e avevano visto i cambiamenti dall’esterno della casa del nonno. Ora cercarono su Google Earth e videro dall’alto che anche l’interno del giardino era molto cambiato e non in meglio ma di tutto ciò non si dispiacquero perché sta scritto nella canzone:
There are places I’ll remember
All my life, though some have changed,
Some forever, not for better!

giovedì 8 gennaio 2009

Enciclopedia del ricordare, Doris Lessing



Post e Commenti già pubblicati sull’argomento: Di Barnaby Rudge e del ricordare; Appunti da…ricordare; Enciclopedia del ricordare, John Lennon.

Possiamo provarci a costruire un’enciclopedia del ricordare attraverso le nostre esperienze e le nostre idee così come attraverso le fonti più varie: letteratura, saggi, canzoni, frasi dette etc.
Chi vuole può partecipare.


Ho appena finito di leggere questo romanzo - il primo che leggo della scrittrice Premio Nobel 2007 - e allora mi è sembrato avesse qualche interesse circa il ricordare.

Doris Lessing, Mara e Dann, 1999.
Il romanzo racconta le vicissitudini fino all’età adulta di due bambini, figli più piccoli di una famiglia regnante che nella notte in cui il potere è rovesciato sono prima rapiti e poi messi in salvo in un villaggio dove devono dimenticare i loro nomi. Il tempo, la memoria e i ricordi non sono il tema centrale del romanzo quanto piuttosto parte dell’intelaiatura su cui si svolge la trama.
Già lo sfondo di questa storia fantastica consiste in un futuro che è un ritorno al passato, in quanto vi s’immagina una nuova glaciazione che arriva a coprire il Mediterraneo per cui l’Africa, Ifrik, è ormai l’unica terra popolata, con il sud arido e secco, in preda ad una siccità progressiva che determina l’affermarsi veloce di mutazioni nella flora e nella fauna – come lo svilupparsi di coleotteri e ragni giganteschi – e il nord freddo e vicino ai ghiacci: le società che sono sopravissute alla glaciazione hanno perso le acquisizioni tecnologiche delle ere precedenti, le diverse genie che popolano Ifrik si dividono pochi oggetti tecnologici di cui ormai ignorano la struttura e il meccanismo, qualche aeronavetta, lastre che catturano l’energia solare, vestiti di stoffa indistruttibile e autopulentesi. Nel mondo di Mara e Dann non ci sono più i libri come l’intendiamo noi nè le biblioteche. La memoria delle cose passate non è quindi affidata ad essi ma ad alcune speciali persone: “Memoria” è una persona che deve tenere a mente tutto il sapere della sua famiglia, intesa come gens. Mara e Dann nel Villaggio di Roccia dove trovano riparo sono affidati ad una donna, Daima, persona della loro gente che è una Memoria. Daima inizia l’istruzione di Mara perché vuole consegnarle la sua memoria. L’educazione di Mara si basa, come proprio del suo popolo, che non ha le scuole, sulla domanda: - Che cosa hai visto?-. Pur non ritenendo tutto quello che Daima le racconta Mara viene a sapere molte cose. A Dann invece questa via d’apprendimento è preclusa perché il fratellino più piccolo è rimasto traumatizzato la notte del rapimento dai modi violenti del suo primo rapitore e non vuole più ricordare, a Dann non si può porre la domanda Che cosa hai visto?. Dann che non può ricordare imparerà di più attraverso il suo corpo, esposto più della sorella alla sofferenza fisica e allo scontro col mondo. Mara che sa e ritiene in certa misura memoria e coscienza del passato è spesso sottratta o salvata dalla violenza.
Il viaggio dei due fratelli verso il Nord alla ricerca di un mondo migliore vorrebbe essere un percorso diretto e invece è ricco d’imprevisti, di personaggi nuovi che vanno e vengono, come di presenze minacciose che non smettono di perseguitarli, di soste e deviazioni, come insegna la frase di John Lennon – vedi post precedente – sugli imprevisti della vita! Strada facendo Mara impara a ricostruire il passato facendo dentro di sé il gioco Che cosa hai visto Mara? , ispezionando i luoghi che attraversa, a cominciare dalle scene raffigurate nelle case della città morta sulla collina sopra il Villaggio di Roccia dove ha vissuto bambina: una città di centinaia o migliaia di anni prima? All’inizio Mara non sa comprendere la differenza di tempo. Poi incontra altri luoghi ed altre persone–memoria e lentamente la sua ricostruzione e comprensione del passato aumenta. E’ interessante questa disposizione di Mara: come se ognuno di noi aprendo gli occhi sul mondo e interrogandoci su di esso – che cosa hai visto?- e ascoltando e interrogando gli altri abbia comunque le chiavi per accedere ad una comprensione della storia umana e, inserito in essa, del nostro particolare passato.
C’è una cosa che aiuta Mara nel suo cammino così come nel suo gioco, il saper distaccarsi dalle persone che incontra e ama lungo il suo cammino.

sabato 3 gennaio 2009

Enciclopedia del ricordare, John Lennon




Post già pubblicati sull’argomento: Di Barnaby Rudge e del ricordare; Appunti da…ricordare.

Possiamo provarci a costruire un’enciclopedia del ricordare attraverso le nostre esperienze e le nostre idee così come attraverso le fonti più varie: letteratura, saggi, canzoni, frasi dette etc.
Chi vuole può partecipare.
Ho pronte due voci da inserire nell’enciclopedia, che sono anche un omaggio a John Lennon.

John Lennon, In my Life.
I ricordi che strutturano la nostra esistenza.

There are places I’ll remember
All my life, though some have changed,
Some forever, not for better,
Some have gone and some remain.
All these places had their moments,
With lovers and friends I still can recall,
Some are dead and some are living,
In my life I’ve loved them all,
But of all these friend and lovers,
There is no one compares with you,
And these mem’ries lose their meaning
When I think of love as something new.
Though I know I’ll never lose affection
For people and thing that went before,
I know I’ll often stop and think about them,
In my life I’ll love you more.

(in “Rubber Soul”, 3 Dicembre 1965)

John ci fa un elenco semplice e nello stesso tempo completo dei ricordi che strutturano la nostra esistenza e che ormai vivono in noi a prescindere di come sono poi evoluti: luoghi, cose, amori e amici che possono essere cambiati e non sempre in meglio, essersene andati o rimasti, alcuni sono morti e altri viventi, ognuno con i loro momenti da ricordare.
- Nella mia vita li ho amati tutti – dice John. Si tratta dunque dei ricordi affettivi. Infatti più oltre riafferma che mai perderà per loro affetto, per la gente e le cose che ci furono prima e spesso si fermerà a pensare a loro. Questa riaffermazione è dovuta al fatto che a conclusione dell’elenco John dice che però tutti questi ricordi non possono essere comparati con un amore nuovo, che le memorie perdono di significato se lui pensa all’amore come qualcosa di nuovo. Questa frase è fondamentale: John non vuole sminuire i ricordi ma vuole sottendere, a mio avviso, che i ricordi non ci trattengono indietro, invece sono proprio la spinta, anzi ci danno la forza, per proiettarci nel futuro, ed essere capaci di dire ad una nuova persona: - nella mia vita amerò più te. -.


***


John Lennon, Strawberry Fields for ever.
I ricordi strutturanti acquisiscono un valore simbolico e astratto: Strawberry Fields diventa un luogo vuoto in cui di fatto nulla esiste, nothing is real, perchè rappresenta e nello stesso tempo dà riparo al vuoto e all’incertezza della nostra coscienza dibattuta.

Strawberry Fields forever, pubblicata il 17 febbraio 1967, ha un precedente in Nowhere Man, in "Rubber Soul", 1965:

He’s a real Nowhere Man
Sitting in his Nowhere Land
Making all his nowhere plans for nobody.
Doesn’t have a point of view,
Knows not where he’s going to,
Isn’t he a bit like you and me?
………………………………


E’ un vero uomo inesistente che siede nella sua terra inesistente a fare tutti i suoi progetti per nessuno, non ha un punto di vista e non sa dove sta andando, non è un po’ come te e me?


In Strawberry Fields John c’invita:

Let mi take you down,
Cos I’m going to Strawberry Field,
Nothing is real
And nothing to get hung about,
Strawberry Fields forever.
………………………………


Più che un luogo dell’immaginazione e dei sogni Strawberry Fields a me sembra il luogo dell’annientamento e del non senso, specie se collegato con Nowhere Man: consideriamo che per la mentalità e la lingua inglese ciò che è vero esiste e sono entrambi i concetti espressi dal vocabolo real: se a Strawberry Fields nothing is real, nulla è vero, allora nulla esiste - è un luogo che non c’è proprio come l’uomo inesistente è vero – cosa che è ribadita dalla frase seguente che dice che a Strawberry Fields non c’è niente per cui stare in attesa.
All’invito ad andare a Strawberry Fields si alterna l’introspezione:

…………………………………
Living is easy with eyes closed
Misunderstanding all you see.
It’s getting to be someone
……………………………..


E’ facile vivere con gli occhi chiusi non comprendendo quello che vedi. Sta diventando difficile essere qualcuno…
E poi:

……………………………………
Always, no sometimes, think it’s me,
But you know I know when it’s a dream.
I think a “No” I means a “Yes”
But it’s wrong
That is I think I disgrave.

………………………………………

Sempre, no a volte, penso sono io ma tu sai che io so quando e un sogno, penso un “no”, voglio dire un “sì”, ma è tutto sbagliato, cioè penso di non essere d’accordo.

Quando diventa difficile essere qualcuno e la nostra coscienza cade nell’incertezza c’è un luogo che può accoglierci, in cui riparare, questo luogo riposante perché non c’è nulla ha le sembianze, o semplicemente il nome, di un luogo della nostra infanzia.
Ma se per sperderci, annullarci – e poi ritrovarci! – abbiamo bisogno di un luogo dell’infanzia è perché lì si conserva il nostro nucleo originario, in qualche modo incontaminato da tutti gli accidenti ed imprevisti della vita dei quali nei nostri ricordi strutturati, ossia in ciò che di tali accidenti e imprevisti abbiamo ritenuto, riusciamo infine ad avere ragione.
Forse nasciamo come corde tese, vettori che puntano in una direzione e dobbiamo invece sottostare a tutte le deviazioni che la vita c’impone. Su Wikipedia alla voce John Lennon è riportata tra l’altro questa frase:

« La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato in altri progetti »
(John Lennon).

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