giovedì 24 dicembre 2009

Natale

Ho il ricordo di una recita di natale, bambini della prima. Maglioncini rossi, in semplici coreografie in circolo o in fila, tenendosi per mano, in piedi o seduti a terra. Con la giovane maestra che accompagna con la chitarra. Qualche incertezza nei passi, seri e compunti, le vocette decise.
Avevo il nastro inciso e un album con i testi delle canzoni. Di una, quando viene natale, mi ritrovo a canticchiare qualche strofa alla rinfusa. Riguarda chi è via.

martedì 22 dicembre 2009

Roman Polanski, la vita e il film

Glielo hanno già detto, o chiesto, in tanti che la sua vita è come un film, perché ancora non l’ha fatto un film della sua vita? E lui no, che la sua vita è normale.
Eppure.
L’altra sera in televisione hanno trasmesso Pirati del 1986. Film di genere, ricco a volerle vedere di citazioni, bello d’immagini e riprese, costato molto. Comincia con la coppia protagonista alla deriva su una zattera e così termina. In mezzo un continuo rovesciamento di situazioni, l’alternarsi beffardo della sorte, forse simboleggiata nel trono d’oro azteco, che rimane in mano loro, forse come estremo sberleffo oppure come pegno di ancora un’altra chance.
Dunque, la circolarità dell’esistenza e nello stesso tempo l’impossibilità di sfuggire al nostro carattere, al dèmone che ci portiamo dentro, sono tra gli elementi profondi, sottesi ai colori smaglianti della pellicola. Che sono elementi costanti della produzione di Polanski. E dopo l’ultima vicenda, dell’arresto in Svizzera, come non vedere, non constatare ancora una volta, l’analogia con la sua stessa vita?
Dunque la domanda era banale, perché si gira sempre lo stesso film, o si scrive lo stesso libro, e non facciamo altro che scavare in noi stessi.

sabato 5 dicembre 2009

Presepio








Fare il presepio è una passione e chi la coltiva sarà senz’altro al lavoro in questi giorni.
Io ho già finito. Tutto cambiato – o quasi – quest’anno. Una base di scatole di legno a lato della porta e attaccata al muro, che normalmente fa da piano d’appoggio, su cui il mio presepio è cresciuto: la capanna sotto e poi a salire la città con le mura merlate e le case sempre più piccole verso l’alto e infine la cima di un’unica grande montagna- mondo. La capanna, e dentro la capanna il bambino, che regge il mondo.
Buon lavoro a tutti i presepiari.

L'evoluzione del villaggio globale

Tutti i mali della globalizzazione, la spersonalizzazione e la perdita d’identità dei popoli, l’inquinamento ambientale, il rimanere tali, o addirittura il peggioramento, dei paesi più poveri, sono suscettibili di essere diversamente considerati a seconda degli uomini e delle circostanze, come la presidenza di Barack Obama per i primi e la crisi economica per le seconde: le speranze accese dalle parole di Obama e l’occasione che la crisi economica offre di riflessione, e ripensamento, sul modello di sviluppo economico perpretato. L’incontro tra Stati Uniti e Cina, e il ripensamento per l’appunto, su Copenhagen, che ha portato entrambi i Paesi a progettare la riduzione di anidride carbonica in quantità e tempi apprezzabili, fa ben sperare che la comunicazione, piuttosto che la contrapposizione, dentro il villaggio globale renda questo organismo più duttile e capace di cambiare in meglio.
Ci sono stati inoltre altri aspetti su cui riflettere e rivedere il giudizio: ad esempio, alcune identità dentro il villaggio globale in realtà sono molto resistenti e oltre un certo limite incoercibili: ciò implicherebbe che il villaggio globale per esistere e svilupparsi debba, piuttosto che sulla perdita d’identità, avvalersi della pacificazione e dell’integrazione tra i popoli.

Dal web alla piazza ( No B day)

E’ accaduto. Dalla videoscrittura alla rete, alla piazza. Lasciando da parte giochi e vite virtuali, senza bisogno di passare attraverso la stampante come necessita alle immagini, concretamente e semplicemente le persone si sono date appuntamento e incontrate: un momento, non tu ed io, non tipo Meg Ryan e Tom Hanks, ma una massa, un’intera manifestazione di piazza.
E’ accaduto perché c’è nel web la gente vera che si è riconosciuta ed è riuscita ad organizzarsi meglio che i partiti. E non ci sono entrati per nulla i grandi giornali on line e nemmeno i blog dei famosi. Proprio la gente comune. Quella, appunto, della piazza.

domenica 15 novembre 2009

Uguaglianza



Liberté, égalité, fraternité. L’uguaglianza è alla base delle democrazie moderne. "Tutti gli uomini nascono liberi con uguali diritti": fu scritto nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, l’espressione più alta della Rivoluzione francese mentre elaborazioni contemporanee sono la Dichiarazione universale dei diritti umani, elaborata dagli anni dell’immediato dopoguerra in poi e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, da ultimo la Costituzione europea, firmata a Roma nel 2004. L’uguaglianza implica il rispetto delle regole uguale per tutti. Implica che le leggi siano fatte per tutti i cittadini.
Una serie di leggi sono state in questi anni di continuo proposte nel nostro parlamento per tutelare il caso di una persona sola.
Dall’altro lato, quasi un rovescio della medaglia, casi come quello doloroso di Stefano Cucchi, dove alcune categorie di cittadini sembra vengano considerate meno uguali delle altre e con meno diritti. Emigrati clandestini, drogati e omosessuali, sarebbero questi gli ultimi gradini di una nuova gerarchia sociale, perché quando la democrazia si fa debole ricompaiono le gerarchie e se ai ricchi e ai potenti sempre più è concesso e permesso, chi sta più in basso deve poter vedere qualcuno più in basso di lui.
Non possiamo che augurarci che la nostra democrazia si rafforzi e con essa l’Uguaglianza.

giovedì 29 ottobre 2009

La morale della storia

Non c’è solo la crisi economica.
Che pure pesa molto su certe categorie in particolare. Sui giovani che perdono il lavoro precario, perché nei momenti di crisi l’egoismo di chi già possiede fa sì che proprio i giovani siano le prime vittime.
Sui lavoratori dipendenti che non hanno stipendi elevati. I loro stipendi sono rimasti fermi negli anni: quando con il cambio della moneta da noi si ebbe il raddoppiamento dei prezzi e quando poi, per sanare il debito, si aumentarono le tasse, che solo i lavoratori dipendenti pagano di sicuro. Ora c’è la crisi e gli stipendi sono sempre fermi ma anche la quota per votare alle primarie del Pd raddoppia a due euro!
Eppure non ci sono solo i soldi. Perché lasciati a se stessi i soldi guardano solo ai soldi e basta. C’è pure la crisi dei costumi, il non arrossire più, la spregiudicatezza estrema con cui si accolgono comportamenti scandalosi. Cioè non ci si scandalizza più. Ma una società, senza essere bigotta, deve pur mantenere, in evoluzione, e perciò modificabile ma comunque ineliminabile, quel senso del pudore che sta alla radice dell’individuo, nel suo intimo più delicato. E lo Stato da parte sua anche se pienamente laico non può rinunciare alla moralità, al rispetto dei valori condivisi della nazione.
Da questo punto di vista noi italiani dovremmo rifletterci su. Tutti possiamo sbagliare, ma se a sbagliare sono molti e noti non per questo si cancellano gli errori. Era questo un teorema già emerso ai tempi di tangentopoli: la normalizzazione del comportamento deviante perché tutti sono coinvolti.
Perché gli onesti e gli innocenti non spariscono mai. Molto probabilmente, grazie a questa polarità il genere umano va avanti e la giustizia dovrebbe servire proprio a questo: a riequilibrare le forze.
E se finora ci siamo salvati dallo sbagliare dovremmo rallegrarci e non invidiare ed ammirare i noti che le fanno i tutti i colori.Quando Veronica Lario scrisse la prima volta per protestare come donna e moglie si pose la discussione sul piano dei rapporti tra pubblico e privato, Che c’entrava il femminismo? Dopo quest’estate e dopo Rosy Bindi, s’è chiarito che il femminismo e il rispetto delle donne c’entrava e c’entra moltissimo, come del resto non può non essere proprio nell’interfaccia pubblico/privato.
Dunque una battaglia morale, dove le donne come oggetto non possono che essere state le prime a sollevarsi, si apre nel Paese.

martedì 13 ottobre 2009

Le donne protestano ma gli uomini...

Da una parte ci sono le donne che dopo l’incidente televisivo a Porta a Porta tra Rosy Bindi e il Premier hanno deciso di protestare rinfiammando un femminismo che sembrava in cenere di fronte al velinismo imperante.
Da un’altra ci sono i giornali e i giornalisti e lo scontro verbale si fa sempre più duro. E’ innegabile che la linea del Corriere della Sera sia ultimamente molto vicina al governo. Ricordiamo invece tempi in cui i due grandi giornali del Nord, La Stampa e Il Corriere, dettero entrambi prova di pensiero indipendente come nel caso della guerra contro l’Iraq del 2003, mostrando apertamente il loro dissenso verso la nostra partecipazione e facendo così infuriare il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi: allora Ferruccio De Bortoli lasciò il Corriere. Adesso è tornato a guidarlo. Per carità, ognuno sa i fatti propri, ma la linea di un grande giornale che deve fare informazione e fa opinione ci riguarda tutti. C’era già stato il caso di Bruno Vespa, che è oggi un fedelissimo perché ai suoi tempi era stato congedato dalla rai democristiana. Insomma rancori e rivalse personali - "quand'ero in difficoltà i colleghi... nessuno mi ha difeso"- sembrano essere alla base del comportamento di personaggi di rilievo del mondo dell’informazione, i più noti, quelli che emergono dal mondo mediatico, ma nell’ombra chissà quanti si regolano così, in questo Paese che sembra aver smarrito il senso della cosa pubblica.
Così se oggi le donne protestano gli uomini tacciono e chinano il capo. Stranamente, in questo momento sono proprio gli uomini a mostrare di avere una visione molto più personale e privata della politica e della storia, opposta a quella del personale è politico degli anni Settanta; in altre parole, sembra proprio che per loro il politico è personale.
Dobbiamo contrastare questa personalizzazione. A fare la sostanza della cosa pubblica negli Stati moderni è la democrazia. Non ci si può perciò limitare alla polemica tra giornalisti, anche se alla base di questa ci sono questioni fondamentalissime come la libertà di stampa, il diritto d'informazione e di critica, non può di certo essere questione di storie personali, ancor più non è un affare che si può dire: ci penso io: è cosa che deve riguardarci tutti come cittadini.
Corre quest’anno il centenario della nascita di Norberto Bobbio. Ripensando ai disastri del Novecento, alle dittature che l’hanno caratterizzato, Bobbio commentava che su queste infine ha sempre avuto la meglio la democrazia.
Cioè, la ragione.

giovedì 8 ottobre 2009

Il baluardo della Carta, ma non prendetevela con i moschettieri

Dunque abbiamo rischiato di fare un brutto passo indietro, verso un Ancien Régime nostrano, osservati con sbigottimento e apprensione dagli altri Stati moderni e costituzionali. Con un primus super pares che neanche al re di Francia era concesso dagli altri nobili ai tempi della Fronda, prima che Luigi XIV riuscisse ad imporre il regime assolutistico.

E i moschettieri di Dumas in Vent’anni dopo, cioè durante la Fronda, non a caso si separano: due stanno con il re e il cardinale e due con la Fronda. Perché Dumas non era certo conservatore e reazionario, lui che seguì Garibaldi in Sicilia. Bisogna guardare dietro la prima apparenza delle cose e proprio dietro l’apparente celebrazione di quei tempi accade che i quattro amici con le loro iniziative facciano sempre di testa loro in barba agli ordini dei potenti. Non sarebbero così simpatici se fossero gli sgherri del potere!

Ma tornando ai giorni nostri, dunque la libertà e l’uguaglianza sono patrimoni che vanno tutelati nella vita di tutti i giorni: non ci sono dati una volta per tutte.

Siamo assistiti però da un ottimo guardiano che è la nostra Costituzione, che a sua volta si avvale della separazione dei poteri, che oggi abbiamo visto alla prova con la questione del Lodo Alfano. Non riesce d’aggirarla, di modificarla nella sua essenza, cioè nelle sue leggi costituzionali, senza una maggioranza che difficilmente un partito o una coalizione può ottenere da sola: per poter cambiare la Costituzione in qualcuno dei suoi punti fondamentali ci vorrà sempre la concordia e l’unità del Paese.

lunedì 5 ottobre 2009

D'Artagnan e Porthos, gli antenati letterari di Asterix e Obelix

Mi mette sull’avviso, in Vent'anni dopo, il fatto che quando Athos e Aramis, sulle tracce di D’Artagnan e Porthos interrogano l’oste che infine li ha veduti, e come poi dirà ha assistito al loro arresto, questi fa vedere loro un troncone della lama di una spada che Athos riconosce per quella di D’Artagnan:
"Del grande o del piccolo?"
domanda l’oste. E siccome Athos risponde ch’è del piccolo il riconoscimento è fatto. Dunque la coppia D’Artagnan e Porthos si caratterizza come il grande e il piccolo.

Altre peripezie e ritroviamo da vicino D’Artagnan e Porthos, prigionieri nel castello di Rueil. La descrizione del loro comportamento in cella e di come ne vengono fuori, insieme al ricordo che erano stati identificati dall’oste come il grande e il piccolo: queste cose tutto ad un tratto mi fanno pensare ad Asterix e Obelix!
La scena si apre con D’Artagnan che passeggia come una tigre in gabbia e Porthos riposa dopo aver abbondantemente mangiato:
"L’uno pareva privo di ragione, e invece meditava; l’altro sembrava meditare profondamente, e invece dormiva. Soltanto il suo sonno era un incubo, il che poteva essere intuito dal modo disordinato e ostinato con quale ronfava."
D’Artagnan induce alla conversazione Porthos: ha contato le ore passate da quando sono stati fatti prigionieri; Porthos risponde che potrebbero andarsene quando vogliono, basterebbe sfondare la porta o staccare una sbarra dalla finestra, togliere le armi alle sentinelle che arrivano… Insomma Porhos è convinto che possano andarsene con facilità quando vogliono. D’Artagnan gli risponde che non si può fare così semplicemente, prima ci vuole un’idea. Dovendo pazientare, Porthos ammette che in fondo non li tengono tanto male tranne una cosa:
Avete osservato, D’Artagnan, che ci hanno dato montone brasato per tre giorni di seguito?
Poi D’Artagnan trova un pian d’azione. E’ esilarante il loro dialogare mentre escono dalla cella, con Porthos che piega come niente due sbarre dell’inferriata della finestra, le toglie e tira su per il collo la sentinella svizzera attirata.

L’astuzia di D’Artagnan e la forza smisurata insieme con l’interesse per il cibo di Porthos, la facilità prevista dell’evasione e il ritardarne l’attuazione, la noncuranza e lo scherzare mentre abbattono i nemici, come fanno Asterix e Obelix, nelle loro storie, con i romani: secondo me le somiglianze sono sorprendenti. Evidentemente c'è nell’immaginario francese questo tipo di coppia, radicata da molto tempo, ed è già nella penna di Dumas.

venerdì 2 ottobre 2009

Dumas, che storia è la trilogia dei moschettieri?



Recentemente Abraham Jehoshua ha osservato che la storia s’impara meglio nei romanzi, portando come esempio Guerra e Pace di Tolstoj.

Che dire in merito della trilogia dumasiana, che copre cinquant’anni di storia tra il 1625 e il 1673? In realtà di questa colossale scrittura sono stati sempre posti in rilievo altri aspetti, quali la personificazione del mito dell’avventura da cui la società moderna va estraniandosi (Filippo Burzio) o la capacità d’incidere sul codice immaginativo dei lettori elevando personaggi e situazioni a livello tipico (Umberto Eco). Antonio Gramsci, che si è occupato di Dumas nei suoi scritti sulla letteratura popolare, ne ha sottolineato la funzione d’attivare la fantasia popolare : il romanzo d’appendice sostituisce (e al tempo stesso favorisce) il fantasticare dell’uomo del popolo; come pure la concretezza fiabesca che gli eroi del romanzo d’appendice assumono agli occhi del popolo.
Gramsci classifica per tipi il romanzo popolare e considera quello di Dumas tra lo storico e il sentimentale: gli riconosce un carattere ideologico-politico che però non è spiccato ed è piuttosto pervaso da sentimenti democratici generici e “passivi” e spesso si avvicina al tipo “sentimentale”. Secondo altri invece i contenuti e le istanze ideologico-politiche nel romanzo di Dumas sono lasciati da parte o in secondo piano e la storia è sì il terreno d’elezione ma solo per il puro divertissement (Francesco Perfetti, Introduzione a Il Visconte di Bragelonne, Newton Compton). Secondo quest’ultima interpretazione nel ciclo dei moschettieri vi sarebbe, per di più, una visione – altro che democratica - idealizzata e tutto sommato positiva dell’Ancien Regime.
Con la lettura ancora fresca di Vent’anni dopo proviamo a valutare la qualità della trilogia dei moschettieri proprio come romanzo storico nei suoi aspetti ideologico-politici verificando quanto e che cosa nel romanzo si ricavi sull’Ancien Regime.

L’Ancien Régime
E’ l’organizzazione politica e sociale precedente la Rivoluzione Francese che appunto in Francia, dove questo modello s’era codificato, ne sovvertì l’ordine. Fu restaurato nella sostanza con il Congresso di Vienna nel 1815 fino alle successive rivoluzioni e costituzione degli Stati moderni.
In questo sistema la società è divisa in tre stati più uno, che, dal basso verso l’alto, sono i poveri, il cosiddetto quarto stato, i borghesi, il clero e la nobiltà: è stato osservato che i tre moschettieri, nell’ordine Porthos, Aramis e Athos, rappresentano appunto i tre stati generali.
Assioma fondamentale, cardine di tutto l’Ancien Régime, è che il Re, in cima alla nobiltà, ha per nascita e direttamente da Dio il diritto di governare: per nascita e diritto divino ne ha le doti necessarie, e, a scemare col grado di nobiltà, gli attributi divini di doti intellettuali e morali appartengono anche agli altri nobili.

Sull’argomento ho trovato interessanti alcune pagine di un romanzo di Goethe.

Goethe
Nel romanzo Wilhelm Meister, la vocazione teatrale (1785) il protagonista Guglielmo-Goethe si è accodato ad una compagnia di teatranti, verso cui in quei tempi la considerazione come ceto sociale era minima, incontrata durante un viaggio intrapreso per sistemare alcuni affari commerciali della ditta paterna e con loro ha l’occasione di essere invitato nel castello di un Conte che vuol offrire uno spettacolo teatrale al Principe suo ospite, di passaggio col suo esercito. Per Guglielmo è un momento di verifica, di riflettere sulla sua inclinazione per il teatro e il suo posto nella società:
"Un abisso lo divideva ormai dalla vita borghese di un tempo, un nuovo ceto lo aveva accolto tra i propri adepti quando ancora credeva di essere un estraneo costretto ad aspettare fuori della porta.”.
In particolare, è l'occasione per osservare da vicino la nobiltà, partendo dalla considerazione di quali alte doti i nobili debbano possedere:
Tre volte felici sono coloro che la nascita stessa innalza al di sopra dei gradini inferiori dell’umanità, che non hanno bisogno di affronare situazioni in cui tanta brava gente si dibatte per tutta la vita…
Salute dunque ai grandi di questa terra! Salute a tutti quelli che li possono avvicinare, che possono attingere a questa fonte e godere di questi privilegi! E ancora salute al buon genio dell’amico nostro, che si accinge a guidarlo verso queste vette felici!
Che delusione, che mortificazioni attendono Guglielmo e i suoi amici commedianti! Anche il meno intelligente degli attori noterà l’incompetenza dei signori nel giudicare delle arti e della recitazione. Guglielmo, che presentato al principe gli snocciola l’aneddoto secondo cui Racine sarebbe morto di dolore perché Luigi XIV non lo stimava più, ne sperimenterà di persona sul piano morale, dialogando con uno di questi signori, il capriccio e ancor peggio la freddezza e durezza di cuore.
L’avventura si conclude con ben altre esclamazioni nei confronti della nobiltà rispetto a quelle iniziali:
Non li biasimate per questo; compiangeteli piuttosto!
Con l’elogio, al contrario, di chi non avendo nulla per nascita è capace di dare tutto di sé, in ciò essendoci veramente del divino:
Soltanto a noi poveri che possediamo poco o niente, è dato godere in larga misura le gioie dell’amicizia…Quale felicità, quale godimento per chi dà e per chi riceve, quale sovrumana beatitudine ci garantisce la fedeltà del nostro affetto! Essa dà una divina certezza alla transitoria condizione dell’uomo…
Dumas
Ci sono due episodi significativi in Vent’anni dopo da mettere a confronto. Nel primo Athos nel separarsi dal figlio Raul, quindicenne che va ad arruolarsi nell’esercito del frondista principe di Condé, lo conduce a Saint Denis, a visitare le tombe dei re di Francia e qui gli fa un sermone sulla monarchia:
Raoul sappiate distinguere i re dalla monarchia; il re non è che un uomo, la monarchia è lo spirito di Dio.
Pur distinguendo il margine della responsabilità umana, nelle parole di Athos c’è tutta la concezione gerarchica del mondo nobiliare propria dell’Ancien Regime:
Se questo re è un tiranno, perché l’onnipotenza ha in sé una vertigine che la spinge alla tirannia, servite, amate e rispettate la monarchia, cioè la cosa infallibile, cioè lo spirito di Dio sulla terra, cioè la scintilla celeste per la quale l’umana polvere si fa così grande e così santa che noialtri gentiluomini, anche d’altissima stirpe, siamo poca cosa davanti a questo corpo disteso sull’ultimo gradino di questa scala, come questo stesso corpo davanti al trono del Signore.
Ma non dobbiamo dimenticare che colui che parla partecipa attivamente alla Fronda e del resto Raoul, che risponde che adorerà Dio, rispetterà la monarchia, e cercherà, se muore, di morire per il re, per la monarchia o per Dio, e conclude:
Vi ho compreso bene?”,
farà la prova, poco oltre, di come sia difficile comportarsi secondo questi intendimenti nella vita pratica. Nel secondo episodio, infatti, lo ritroviamo che, richiamato proprio dal grido “In nome del Re”, irrompe in scena e si lancia sulla folla di parigini che vuole opporsi all’arresto del consigliere Broussel. Sopraggiunge D’Artagnan che lo salva dall’essere sopraffatto.
A tafferuglio concluso, rimasti soli, D’Artagnan rimprovera Raoul, per il suo intervento, anche se ha aiutato le guardie del re a compiere l’arresto. Raoul invece sembra fiero di sé, gli sembra di aver fatto il suo dovere, di aver difeso il re.
E chi vi ha detto di difendere il re?
Il tono di D’Artagnan è duro: proprio Athos, il conte di La Fere, andrebbe su tutte le furie se sapesse di questa uscita di Raoul; il giovanotto ha commesso un’enormità, s’è immischiato in cose che non lo riguardano. Ora non è solo che siamo ai tempi della Fronda: è che sotto sotto Dumas sbriciola la monarchia e con essa tutto l’Ancien Régime: perché ci fa vedere spregiudicatamente e d’un tratto come uno squarcio, come il piombare di Raoul sulla scena, che il concetto di tutelare la monarchia non si può tradurre in un’azione chiara e netta per un giovane valoroso e pieno d’ardore, che la monarchia è un ideale vago e inconsistente.

Del resto il giocare con la storia che fa Dumas attraverso i suoi moschettieri è del tutto irriverente verso i potenti, in fondo falsi protagonisti oppure solo protagonisti di facciata: perché le cose potrebbero essere verosimilmente andate come lui ce le descrive e i quattro amici, rappresentanti dei diversi ceti sociali, essero loro il vero motore della storia, sempre in movimento, sempre pronti all’azione: anche loro come i poveri commedianti di Guglielmo-Goethe portatori di valori essenziali, l’amicizia, la lealtà e la fedeltà, che i potenti mostrano in mille occasioni, da Anna d’Austria a Mazzarino, di non sapere dove stanno di casa.

Nei mille intrighi tessuti e disfatti c’è pure una verità storica: come non considerare che la nostra storia attuale, anche quella di questi giorni, ne è purtroppo piena? Solo che nella realtà manca l’arte dello scrittore, la leggerezza e l’eleganza con cui i moschettieri – e ognuno dei compagni mitiga gli eccessi del carattere degli altri- dominano infine le situazioni, a sollevarci dallo squallore e dalla meschinità delle macchinazioni.

venerdì 4 settembre 2009

Enciclopedia del ricordare: Vent'anni dopo



“Gli riapparve la propria giovinezza, portando con sé tutti quei soavi ricordi che sono piuttosto sensazioni che pensieri. Da quel passato al presente c’era un abisso. Ma la fantasia ha il volo dell’angelo e del baleno: essa varca i mari nei quali abbiamo corso il rischio di naufragare, le tenebre dove si sono perdute le nostre illusioni, gli abissi che hanno inghiottito la nostra felicità.
[…] Nel ricordare tutto ciò che aveva sofferto, egli previde quel che avrebbe potuto soffrire Raoul…”


Sono riflessioni che Dumas non può che affidare ad Athos, il più fine e nobile dei suoi moschettieri, apposte sempre con il tratto veloce e leggero della sua scrittura e nello stesso tempo potentemente efficaci nel fermare elementi caratteristici del ricordare.
Così, per un verso, il seguito de I tre moschettieri può considerarsi un gioco del ricordare e del rivivere, ancor più per quei lettori che, come me, compiono la rilettura circa e più di vent’anni dopo. Ricordare per i lettori, dunque, come pure per l’autore che scrive e, dentro il libro, per i personaggi. Invecchiati, i protagonisti hanno come pudore di lanciarsi sfrenatamente nell’avventura come una volta, più prudente e riflessiva la mente immaginativa di D’Artagnan, le azioni compiute pesano nel ricordo sulla coscienza di Athos, mentre più inossidabili nello spirito si mostrano i due più materialisti per diverso aspetto, Porthos e Aramis. D’altra parte, se il ricordo e la malinconia a tratti riemergono con tante piccole citazioni degli eventi passati, l’avventura e l’intrigo sono comunque inarrestabili nella mente di Dumas ed irresistibili per i lettori.

I moschettieri di Dumas sono stai gli eroi della mia infanzia, letti e riletti di seguito nottate intere. E’ successo allora che sono diventati compagni inseparabili dei miei luoghi preferiti, ho viaggiato con loro e poi, in ogni luogo visitato che mi sia piaciuto, una campagna, una piazza o il cortile di un vecchio palazzo, ecco che ho potuto vederli apparire, a cavallo, in carrozza, inseguiti dalle guardie del cardinale…Mi succede ancor oggi e volevo verificare l’effetto della rilettura su queste mie antiche e radicate impressioni. In Vent’anni dopo i quattro amici continuano a spostarsi moltissimo tra Parigi e Londra, alloggiando in molte locande dai nomi godibilissimi – ma Dickens quanto a nomi di locande è imbattibile -. Strade, piazze, saloni e castelli, puntualmente e, come sempre, brevemente descritti, si susseguono nella lettura ma non ritrovo più la magia d’allora, o meglio quella magia c’è ancora ma resta appannaggio della mia lettura infantile. C’è stato un momento in cui ho ritrovato la stessa atmosfera, nel punto in cui D’Artagnan, in compagnia di Planchet, sta per recarsi da Porthos, seguendo la strada da Villers- Cotterets* a Compiègne, dove si legge:

“Era una bella mattina di primavera, gli uccelli cantavano sui grandi alberi, larghi raggi di sole passavano attraverso gli intrichi dei rami, là dov’erano meno folti, e sembravano tende di velo dorato. In altri punti la luce attraversava appena la fitta volta delle fronde; e i piedi delle vecchie querce, sulle quali riparavano a precipizio, alla vista dei due viaggiatori, gli agili scoiattoli, erano immersi nell’ombra. Da quella campagna al mattino veniva un profumo d’erbe, di fiori e di foglie che rallegrava il cuore. D’Artagnan, stanco del fetore di Parigi…”.

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*E' il luogo dove Alexandre nacque e trascorse l'infanzia.

(continua)

sabato 22 agosto 2009

L'Unità d'Italia

“questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai”
Da I promessi sposi di Alessandro Manzoni.

Oh il matrimonio c’è stato, e siamo arrivati al centocinquantesimo anniversario delle nozze! Ma i festeggiamenti non s’hanno da fare: così i bravi leghisti.
Cos’era il romanzo se non la storia di un’ingiustizia, un soppruso, raccontato dai presupposti fino alle ultime conseguenze? I prepotenti che vogliono imporre la loro volontà, il loro capriccio o un loro oscuro disegno, non mancano mai in questo Paese ed oggi si avvalgono dei mezzi della propaganda, dei media a loro disposizione, per darla a bere di rappresentare un parere condiviso della maggior parte degli italiani. Ma non è vero per niente.
Le fiamme d’agosto! Non basta il caldo ulteriore sopraggiunto: ci hanno evocato le forze del male, consessi di diavoli: ma dove, da quale parte? Chi ha indurito i cuori, a far negare quel soccorso in mare che dev’essere stato agli albori della civiltà, dell’umana solidarietà?
Vogliono farci credere che l’idea dell’Italia è in pezzi: è l’ignoranza del passato come del presente, perchè memoria storica e memoria individuale sono altrettanto fondamentali per la comprensione della realtà che ci circonda, questo ci fa davvero paura. Ogni volta che si vuole imporre qualcosa si cerca di mistificare la storia, di riscriverla a proprio uso e consumo.
Che la storia dell’Italia dall’Unità ad oggi abbia anche i suoi errori, le sue mancanze, le sue pagine buie, come del resto per molte nazioni, perché confondere ciò con l’idea dell’Italia, della patria comune?
Eravamo italiani già molto prima del 1861: quando ancora eravamo italici e romani; già prima che fosse l’Europa; quando poi gli europei chiamavano italiani i veneziani, i genovesi o i fiorentini e l’Italia come nazione era di là da venire: divisa in stati e staterelli, molti in mano o sotto l'influenza di principi stranieri (mentre nelle carte delle cancellerie europee risultava ancora il Regno d'Italia del Sacro Romano Impero, che dopo la fine dei carolingi era toccato a Berengario, marchese del Friuli...).

Riproduzione da originale di fine 800. Edizioni grafiche Tassotti. Bassano del Grappa!

Questa eccezionale penisola, una stretta striscia protesa verso sud nel Mediterraneo, tutta “monti e vallate”, dove diverse popolazioni avevano potuto, proprio per la conformazione geografica, mantenere la propria individualità regionale e nello stesso tempo partecipare ad un humus comune, quell’italianità, che il mondo, dal di fuori, ci ha sempre riconosciuto. Proprio le diverse etnie, i diversi individualismi sono stati la fonte della mescolanza da cui si è sviluppato il genio italiano, così grande e così duraturo.
Dobbiamo ogni volta ritornare su queste cose? Ebbene facciamolo. Non lasciamo passare gli attacchi all’identità nazionale, specie quando come oggi si basano sull’egoismo, la negazione della fratellanza tra i popoli, l’ignoranza e il travisamento della storia.

martedì 4 agosto 2009

pubblicità invasiva





Il cartellone pubblicitario incombe sulla piazza-salotto nel pomeriggio, perché la mattina c’è il mercato, dell’estate romana.




Una città dalle scenografie e dagli scorci più inusitati e questa piazza ne offre qualche impareggiabile esempio:








Molto sopporta e trasforma la città: semafori, cavi , lampioni e cancellate.
Proprio di troppo e stonate sono le immagini pubblicitarie.




Quanto a Giordano Bruno sarà molto più contento la mattina, immerso nel vociare allegro e popolare del mercato. Il filosofo, che pensava infiniti mondi e pure apprezzava lo spirito popolare perchè vicino alla natura e arguto, sarà per lo meno seccato dalla versione mondana, dei tavolini allineati tra bar, pizzerie e ristoranti, che la piazza assume nell’altra metà del giorno. A questa parte della vita della piazza è rivolta la pubblicità, che gli ruba l'aria, a lui gran fustigatore dei suoi tempi.

lunedì 27 luglio 2009

In alto mare e sull'appennino

Può essere che in alto mare ci stiamo sempre, la vita come un arrancare, anche se nei bei momenti ci pare di stare adagiati su una riva sopra la sabbia soffice.
Può essere che i momenti decisivi in cui è importante fare delle scelte ce l’inventiamo noi oppure è proprio così: in ogni momento si potrebbe cambiare la storia.
Fatto sta che nel nostro Paese invece si radicano situazioni che nei decenni che passano sembrano non cambiare mai. La diseguaglianza tra Nord e Sud e la stagnazione sociale sempre più marcate anche prima della crisi economica sopraggiunta sono l’espressione più evidente dell’anomalia italiana. Ci sono paesi come la Spagna e il Portogallo che molto più tardi di noi si sono liberati dalla dittatura eppure oggi mostrano che il taglio è stato netto e la loro democrazia è molto più fluida della nostra: questo spiega, a pensarci bene, come essi siano tra i più interessati ai casi e agli scandali della politica italiana.

Ci sono ragioni storiche dall’Unità d’Italia alla Guerra Fredda e alla Seconda Repubblica che ci raccontano sempre dello stesso patto scellerato: del sud venduto e comprato come riserva d’arretratezza, di reazione e di voti. Il copione non è mai cambiato.

Ma così in realtà tutta l’Italia è stata venduta e comprata, mai veramente libera e democratica: a Palermo in fondo come a Roma, Torino, Milano, Venezia, Padova o Ferrara, tanto per nominare qualche città, perché nessuno è rimasto indenne; nessuno di noi, se riflettiamo bene, è stato e può veramente dirsi libero e democratico in questo Paese.

I problemi del sud, la questione meridionale, non possono essere scissi con il federalismo fiscale o la creazione di un partito del sud o addirittura un’autonomia del sud che del resto, come i commentatori più avvertiti hanno già rilevato, sono iniziative che nascono dal gioco delle parti; ad esempio è tipico della mafia minacciare l’autonomismo che vuol dire “non vi diamo più i voti”.

La questione meridionale grava perciò sulla nostra storia comune, che è quella che ci ha portato fin qui e quindi, se siamo consapevoli, sulle nostre coscienze. Se nessun uomo è un’isola su questa penisola nessuno può sentirsi autorizzato a chiudersi in un regionalismo autocrate ed egoista pensando di averne diritto, insomma con la coscienza a posto.

Su questo prima di tutto dovrebbero meditare anche i democratici semplicemente o davvero - ma davvero? - del Pd, che hanno tagliato fuori la piazza ma stanno a litigare se allearsi o meno con l’Udc di Casini, quasi scordandosi dell’opposizione, il loro primo dovere.

Se continuiamo a stare in alto mare, sull’appennino le cose sembrano non andare meglio. Nulla, nemmeno una pietra, è stato smosso dal centro storico de l’Aquila perché lo spettacolo del terremoto fosse gustato appieno dagli attori-spettatori del G8.
A un’amica appena ritornata dall’Abruzzo ho chiesto come si presenta la città. Mi ha risposto che non si può entrare, è tutto transennato, solo si può visitare il Castello. Ha aggiunto che vi sono Comuni danneggiati che però non sono stati inseriti nel piano di risanameno e quindi dovrebbero fare tutto a loro spese.
L’Aquila non è Firenze che sotto i danni dell’alluvione commosse e ottenne l’aiuto del mondo intero. Le case per gli aquilani terremotati le stanno costruendo altrove – dove? –. Che ne sarà allora del suo centro storico?
“Non vi saranno nuove tasse” ha detto il premier – che pure deve molto agli aquilani per la riuscita dell’intrattenimento – quando il problema sono ancora le vecchie di tasse che stavano per essere ripristinate ma per le proteste sono state, è notizia dell’ultima ora, rimandate.

sabato 18 luglio 2009

La questione meridionale si riaccende: il divario tra Nord e Sud aumenta con la crisi

E’stato pubblicato il rapporto 2009 della Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno che ha suscitato la sollecitazione del Presidente Napolitano: - Le istituzioni facciano di più.

Si legge tra l’altro in questo documento, scaricabile da Internet:

“In base a valutazioni SVIMEZ nel 2008 il Pil ha segnato nel
Mezzogiorno -1,1%. Ormai da sette anni consecutivi il Sud cresce meno del Centro-
Nord, cosa che non è mai successa dal dopoguerra a oggi.”

“Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese
spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo
interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. Le campagne meridionali si
spopolano, ma non a vantaggio delle vicine aree urbane.
I posti di lavoro del Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati.
Ed è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la
principale spinta all’emigrazione.
Tra il 1997 e il 2008 circa 700mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno.”

Il mezzogiorno d’Italia prende come area sottosviluppata fondi dall’Europa. Il governo italiano da parte sua ha tagliato i fondi che a sua volta vi destina. Si legge nello Svimez:

“I tagli al Fas –Il finanziamento delle misure anti crisi economica in Italia è stato
garantito spostando su quest’obiettivo risorse già presenti nel bilancio alle quali era
stata data inizialmente una diversa finalità. In particolare ricorrendo a quelle
destinate alle aree meridionali attraverso il Fondo Aree Sotto Utilizzate, che sono
state spostate su obiettivi oggi considerati prioritari per rilanciare l’economia, dalle
grandi opere pubbliche, perché i cantieri hanno una funzione anticiclica, agli interventi
per attutire l’impatto della perdita di posti di lavoro.”

La conclusione è che questa redistribuzione dei fondi per il mezzogiorno di fatto favorisce il centro-nord già più ricco:

“Cosa dice la Svimez – Con i decreti anticrisi, una percentuale significativa delle risorse
FAS è stata stanziata su altri fondi. L’area meridionale si trova pertanto a competere,
in termini di capacità di assorbimento, con le aree a più alto tasso di sviluppo del Paese
che riescono ad attivare una più efficiente programmazione di spesa e più elevati livelli
di progettualità.

Emerge con evidenza, una configurazione di “non neutralità” delle crisi che rischia di
dare luogo ad una tendenza alla redistribuzione delle risorse a favore delle aree più
forti che potrebbe perdurare anche oltre la fase congiunturale.”

Insomma quello che abbiamo già osservato in altre occasioni, che con la crisi i ricchi tendono a diventare più ricchi e i poveri sempre più poveri, vale quanto mai nel rapporto tra nord e sud del Paese. E ancora dobbiamo vedere gli effetti del federalismo fiscale da applicare, una legge appoggiata anche a sinistra! Mi chiedo come si possa accettare una tale legge avendo una così vasta area del paese in tali condizioni economiche, riconosciute dall’Europa che ci dà per esse cospicui finanziamenti.
Dopo essere stati rintronati dalla questione settentrionale dei ricchi del nordest e del nordovest sarà molto più serio tornare alla questione meridionale.


Incisione di Domenico Faro

La questione meridionale s’è posta fin dall’inizio, con l’unificazione del Paese, stante il divario economico e sociale tra il nord e il sud che si riunivano. E subito ci fu Bronte, e poi ci sarebbe stato Portella della Ginestra: le proteste contadine, le forme di associazione sindacale represse nel sangue. Il meridione, la Sicilia in particolare, poteva ben restare arretrato, funzionale al nord che s’industrializzava: “ ottimo mercato dei prodotti industriali e nello stesso tempo una preziosa riserva della reazione italiana” – osservava Leonardo Sciascia. In questo disegno la mafia si è infine sostituita ai baroni nel patto scellerato che ha condannato il nostro mezzogiorno, ramificandosi però anche fuori di esso; epigoni ‘ndrangheta e camorra. A mio avviso non è pensabile che i meridionali possano da soli liberarsi dal morso della criminalità organizzata che oggi è il principale ostacolo al loro sviluppo economico. E’ tutto il Paese ormai che va bonificato. Per questo penso che le iniziative delle Liste Civiche e di Parlamento Pulito che sono venute in mente a Beppe Grillo e su cui insiste anche Antonio di Pietro siano buone per cominciare dal basso a rinnovare il Paese e con esso il meridione.

mercoledì 15 luglio 2009

La piazza e il partito: la candidatura di Beppe Grillo nel Pd


Forse solo una provocazione ma nell’insieme, con le reazioni suscitate, prende il sapore dell’apologo, che so la favola dei grillini e dei vecchi elefanti.
C’è il vecchio partito, pardon il nuovo partito, nato in conclusione dalla mera riunione di ds e margherita, con le sue vecchie cariatidi e telamoni ma anche con il suo saldo apparato organizzativo che però nelle ultime vicende elettorali ha saputo solo imboccare la via della perdita costante di voti. Grillo rappresenta la piazza come è già stato a Piazza Navona, quella piazza temuta e mai amata, diversa da quella orchestrata nell’ultima veltroniana manifestazione al Circo Massimo: questa è spontanea, irrequieta, perciò disorganizzata, ma non è vero che non sappia ciò che vuole. E’ una piazza moderna, responsabile, informata e consapevole. Su questo contrasto, proprio tra Grillo e il Pd, tra la piazza e il partito, forse si sta giocando una partita importante per il futuro e la democrazia del nostro Paese. Come non pensare che se accordo ci fosse si potrebbe raccogliere una marea di voti da sommergere anche il più amato dagli italiani? E che questa prospettiva non solletica affatto cariatidi e telamoni che hanno più a cuore il loro proprio futuro?
La piazza ha una programma concreto in quattro o cinque punti: se ne potrebbe discutere, e aggiungerne qualche altro. Il partito si definisce riformista ma poi programmi concreti i suoi candidati attuali non riescono a sfornarne e pensano soprattutto alle alleanze in Italia e in Europa, queste sì per loro sono cose fondamentali. Perché il loro riformismo prevede riforme da attuarsi chissà quando e i benefici derivanti ancor dopo.
Dicono che nel Pd manchi un Obama: appunto l’Obama di oggi mostra di saper coniugare idee ed ideali con provvedimenti concreti e adatti per il momento di crisi ma è una lezione che cariatidi e telamoni non sanno apprendere. Ecco perché hanno bisogno della piazza, che ricordi loro le esigenze concrete, attuali e perciò vivissime del Paese.

mercoledì 8 luglio 2009

Viareggio, L'Aquila, Italia e Michael Jackson

Conosco i luoghi, la Versilia, Massa, Carrara e la Lucchesia. Lo stadio di Viareggio ieri mattina era foderato da un cielo azzurro, i pini svettavano e sul verde del campo, in primo piano, i colori dei fiori posti sulle bare. Anche così, in questa cornice luminosa, guardando la diretta televisiva il dolore si percepiva, ti arrivava dentro. Storie familiari troncate lungo vie cittadine troppo vicine ai treni. Il carrello assassino che deraglia, per quali cause non ancora accertato. Un’Italia sbagliata che paga in vittime innocenti, colte ancora una volta in quella che dovrebbe essere la serenità quotidiana nel farsi della notte.
Uno striscione – l’ha ripetuto il vescovo nella sua omelia – diceva: Viareggio risorgerai più bella.
Intanto all’Aquila aspettano ancora, hanno fatto una fiaccolata, per alludere che nel centro storico colpito non c’è ancora luce elettrica - nemmeno provvisoria?! -. Si sono invece velocemente realizzati i lavori per accogliere il G8: un servizio del primo canale rai, che ha preceduto la diretta da Viareggio, mostrava le ultime pennellate di vernice date in fretta. Si chiedeva ai cittadini, quelli rimasti perché, raccontava il cronista, molti per l’occasione, se ne erano andati - cosa si aspettavano dall’evento: che i potenti si accorgessero di loro e facessero qualche cosa.
C’è pure chi confida negli stranieri per liberarsi del premier, che una bella spallata gli venga da questo G8. Mi viene in mente il Manzoni, quello dell’Adelchi: in quella cornice storica la domanda era se i Franchi sarebbe venuti in Italia a combattere i Longobardi solo per fare un piacere a noi.
L’Italia che non si riconosce nei sondaggi favorevoli esibiti al posto del governare ringrazia la stampa estera – vediamo se succederà davvero qualche cosa - ma dovrebbe pure trovare in se stessa la forza per contrastare l’attuale leadership. Per provarsi a ricostruire un’Italia che sostituisca finalmente quella sbagliata che non rispetta le regole, che miete vittime ignare.
Da Viareggio a Los Angeles, da Andrea Bocelli a Stevie Wonder il canto che ha commosso e accompagnato il commiato. Michael un eroe globale, planetario. Rivedendo i suoi video più famosi su You Tube emerge un messaggio chiaro, universale, una specie di procedimento alchemico il suo, di trasformare ciò che è basso e gravoso, in energia positiva - come l’opera al nero in oro - : così per le nostre paure come in Thriller, così per la violenza sciolta nel ritmo della danza come in Bad, così per uscire da noi stessi e superare, spiazzandola, l’aggressività altrui come in Beat it.
Ecco, abbiamo bisogno di queste idee universali per attingervi e migliorare la nostra creatività, per contribuire a migliorare il nostro Paese.

sabato 20 giugno 2009

Perchè proprio a me?

Diario di bordo
La malattia è la diversità che ti cala addosso. In modi diversi. Può essere un’isola, un castello in cui dimorare, e nello stesso tempo un viaggio dentro noi stessi e verso gli altri.



Perchè, come ogni cosa che interrompe la quotidianità, ci fa pensare.
Prima di tutto ho rilevato che molte si sono chieste – e continuano a chiedersi – perché proprio a me. Nella nostra ricerca di significati – quando pensiamo - è chiaro che non possiamo non applicarci ad un evento che mette sottosopra la nostra vita.
Personalmente non me lo sono chiesta più di tanto - quasi come se me lo aspettassi ? -.
Ho già incontrato la malattia nelle persone a me più vicine e quindi il vedere le cose da lontano, il “succede agli altri, non a me” che scatta istintivamente quando siamo informati delle disgrazie che pure continuamente accadono nel mondo – non ha funzionato.
- Sono fatalista – dice una “collega” nella sala d’attesa del day hospital quando la chiacchierata scivola sull’argomento. E mi ricordo d’averlo detto a mia volta in un’altra conversazione in un’altra sala d’aspetto.
Alcune, però, non si danno pace nella loro ricerca di significato. S’indagano senza pietà, nel trovare le cause, lo stress, l’insoddisfazione e altro, e così alla fine sottopongono impietosamente la loro vita a giudizio. Il fine ultimo di questa ricerca, è infatti proprio il senso della nostra vita e della sua possibile vanità, che la malattia ci viene a suggerire.
Come la morte per coloro che restano è materia per decifrare il senso della vita del defunto, siccome la nostra vita è un’opera che nasce con noi, e un’opera si giudica quando è terminata, la malattia anticipa crudelmente l’analisi e coinvolge il diretto interessato.
Ma la nostra vita è veramente un’unità, come pretenderebbe la nostra coscienza, da cogliere nella sua pregnanza? Proprio Dickens fa dire ad un suo personaggio che ogni mattina si trova davanti uno sconosciuto intento a farsi la barba.
Alla fine, “perché proprio a me” non è detto che sia una buona domanda. Scaviamo pure in noi stesse, ma per tentare di raggiungere qualcosa che ci travalichi, proprio quando le nostre non buone condizioni ci fanno più sentire la gabbia del nostro corpo.
Altre dicono pure:
- Deve passare. Passerà.
Io non ci provo nemmeno. In fondo il nostro tempo ora ci appare più prezioso e non possiamo impiegarlo aspettando che passi.

mercoledì 10 giugno 2009

L'evoluzione della specie




L’accordo Chrysler-Fiat si farà. Molto probabilmente ineluttabile: l’evoluzione della specie – meccanica - una volta avviata è difficile d'arrestare.

mercoledì 27 maggio 2009

Il battito della natura


E’ stata una primavera piovosa ma tiepida. Le campagne d'Italia ne hanno goduto. Il verde ha potuto crescere ed espandersi nelle sue diverse gradazioni dai piani alle alture in questi nostri paesaggi mai rettilinei, sempre linee spezzate e curve rincorrentisi fino all’orizzonte.
Muoversi tra la campagna e la città, e mentre in questa il tempo degli affari umani tende ad un'inflessibile ripetitività, annotare le differenze attraverso gli occhi, nei suoni, negli odori e dentro di noi, con l’aria più fina per la quale ci accorgiamo che anche i nostri polmoni si beano.
Poi il caldo improvviso, smodato per la fine di maggio, che ha fatto maturare rapidamente e virare ai toni del giallo i verdi d’aprile. Eppure ancora bella la campagna spigata e ancora gonfia, punteggiata dai papaveri rossi.
Come tutto, a volte, cresce velocemente e corre alla sua fine, allegramente però, come una festa.

lunedì 18 maggio 2009

Elezioni indiane



Negli anni Settanta il premio Nobel prof. Daniele Bovet insegnava Psicobiologia all’Università di Roma e trovandosi ad interrogare una studentessa indiana abbandonò d’un tratto i casi, le osservazioni e gli esperimenti sul comportamento animale, per chiederle che ne pensasse come donna, dal punto di vista femminista, d’Indira Gandhi quale capo di Stato. Tutte le studentesse presenti molto probabilmente si ritrovarono a pensarci su. Tale era la forza del personaggio Indira.

sabato 16 maggio 2009

Gran Torino



Una rivoluzione piccola sembra infine realizzarsi.
Per gli americani, le nostre utilitarie erano uno scherzo, un giocattolo un po’ come Pinocchio, oppure qualcosa di molto esotico. Loro, il grande Paese, con le sterminate high way, hanno sempre pensato le quattro ruote in formato extralarge.
Riconoscevano, però la nostra intraprendenza – come apprezzarono Cinecittà - e la Gran Torino della Ford fu un omaggio, ma mai si sarebbero immaginati di dover riconoscere che piccolo è bello, e soprattutto conveniente, anche per loro.
La macchina a idrogeno rimane in cantiere, qualcuno dubita che sia una bufala; la macchina elettrica è pronta ma non parte, addirittura è troppo silenziosa. Intanto i giocattolai di Torino hanno preparato pure la Panda a metano. Dovremo perciò accontentarci della rivoluzione in piccolo, sempre che Obama, Marchionne e i consumatori americani riescano ad andare d’accordo.
Sarà allora una vera riconversione industriale per il motore americano. Qualcosa che cambia, che si adegua ai tempi nuovi, più difficili.
Certo potremmo anche pensare un mondo diverso, proprio con meno macchine, ma ciò non vieta di considerare la piccola riconversione americana un segno positivo di duttilità, interscambio, direi d’evoluzione, all’interno del villaggio globale.
Intanto c’è l’odierna manifestazione a Torino sull’occupazione, la paura che si chiudano gli stabilimenti, ma la Fiat ha sempre saputo riprendersi. E questo fa ben sperare anche in quest’occasione: che le opportunità offerte stranamente proprio dalla crisi internazionale non contrasteranno con il bene dei lavoratori italiani, affinché si realizzi nuovamente una gran Torino.

domenica 10 maggio 2009

Ricordare e dimenticare


Pertinenti alla nostra Enciclopedia del ricordare, alcune considerazioni che prendono le mosse dall’incontro tra due donne, le vedove Pinelli e Calabresi, custodi della memoria dei loro uomini, davanti al Capo dello Stato e dalla riflessione di Miriam Mafai su Repubblica.

Circa il ricordare, riferito alla strategia della tensione che ha caratterizzato gli anni della Prima Repubblica, Mafai insiste sull’importanza, accanto al lavoro degli storici, di affidarci anche “alla nostra memoria, alla nostra capacità di trasmetterne il ricordo, le vicende e i valori. Di qui il frequente richiamo alla necessità e all'importanza di una "memoria condivisa" ai fini della crescita di una coscienza e di una identità collettiva.”

Eppure proprio di fronte a questi eventi che sono stati tragici e dolorosi, nell’incontrarsi sorridendo delle due signore, c’è anche una componente di dimenticare, nel senso metaforico così magistralmente espresso da Dickens nella figura di Barnaby Rudge – colui che è felice perché non-ricorda -. Dobbiamo ricordare, per la nostra memoria storica, la nostra identità collettiva, per comprenderci meglio e progettare il futuro, e dobbiamo dimenticare per non soffrire più, allontanare i rancori e guardare al futuro con quella fiducia senza cui in realtà ricordando non ci si stacca dal passato. Siamo cioè nel nostro presente continuamente esposti al ricordare e al dimenticare e dalla risultante di queste opposte tendenze, molto probabilmente, si determina il nostro stare nel mondo.

giovedì 7 maggio 2009

Concerto rock è bello

(sento di dover rafforzare il contenuto del post che precede)
Secondo me, si può avercela con la pochezza della politica sindacale nei confronti dei giovani ma chiedere anche solo per polemica di abolire il concerto rock del primo maggio è profondamente sbagliato per l’importanza, il significato dello stare assieme e la tradizione che ormai c’è dietro questo tipo di manifestazioni, che nel mio post precedente ho cercato di evidenziare elencando degli esempi storici. Forse un far politica un po’ provinciale e, pur dicendo di voler cambiare, in realtà vetero; forse Epifani e gli altri con i loro capelli bianchi, e lo stesso Vasco, sono, almeno in questo, più giovani dei loro critici.

lunedì 4 maggio 2009

Il concerto del primo maggio

Tra le forme di comunicazione e partecipazione di massa più popolari oggi c’è il concerto rock. Un antesignano il concerto per il Bangladesh di George Harrison del 1971, e poi tra gli altri il concerto in onore di Bob Dylan al Metropolitan, quello in cui a Sinead O’Connor fu impedito di cantare dai fischi, perché il popolo del rock è pacifista dalla nascita – questo per dire che i messaggi detti sono pochi in un concerto rock ma sono chiari, la gente sa perché si trova lì e poi conta la musica – e il grandioso e planetario live8, in occasione del G8 di Edimburgo, quattro miliardi di persone collegate dalle televisioni di tutto il mondo. Da noi abbiamo il concertone di Piazza san Giovanni a Roma per festeggiare il primo maggio e anche qui non è solo per chi ci va ma pure per tutti quelli che lo guardano da casa. Come noi che in casa ci siamo rimasti, abbiamo ricevuto visite e c’era sempre la televisione accesa con le immagini del concerto.
Mica solo per i giovani sono i concerti rock, perché il rock ha ormai più di cinquant’anni. Ora ho letto in un blog, Odisseo, che i sindacati dovrebbero abolire il concerto del primo maggio. Ho capito, leggendo il post, che l’autore critica la politica sindacale nei confronti dei giovani, ma non ho capito perché prendersela con il concerto rock: e se un giorno "ci salverà la musica"?

mercoledì 15 aprile 2009

la ricerca di significati


Può succedere che mentre facciamo le cose di tutti i giorni, s’incappi in qualche pensiero che potremmo definire, senza per questo essere troppo pretenziosi, dato che non siamo professionisti della materia, filosofico. Ad esempio quando occorre un guasto alla caldaia, o alla lavatrice, o qualche altro imprevisto o accidente, come che so cercare un oggetto che sembrava sparito ed invece avevamo sotto il naso ma non riuscivamo a vedere. Sono contrattempi che una volta risolti ci chiediamo a cosa sono serviti. Allora ci accorgiamo che, quando più all’erta e quando meno, siamo sempre in caccia di un significato da dare alla nostra esistenza, nei diversi attimi che la scandiscono. E però ci sono dei momenti che questa ricerca ci sembra particolarmente vana, siamo sommersi dall’evidenza che la nostra giornata è stata condizionata da un guasto meccanico dell’elettrodomestico e quest’evidenza diviene un paradigma della nostra intera esistenza: che tutto intorno a noi avvenga con meccanica indifferenza, piccole e grandi concatenazioni di eventi legati da un nesso causale, che per l’effetto di estraneità che ci produce non sembra doversi riportare ad una causa prima superiore, divina, che in qualche modo ci veda e ci comprenda.
L’intuizione che si genera da questi contrattempi della vita quotidiana è piuttosto quella di un mondo che va avanti da sé con leggi meccaniche, di cui nel momento dell’intuizione ci sentiamo spettatori ma di cui quando gli eventi più ci coinvolgono siamo anche per forza attori, ma allora come ci muoviamo sulla scena, anche noi soggetti- oggetti - cause ed effetti - di questo mondo meccanico? Come se la nostra visione del mondo si capovolgesse: proprio i contrattempi, gli accidenti, sono espressione e ci fanno riscoprire la causalità necessaria e indipendente dalla nostra volizione, e dal nostro flusso di coscienza con il quale solitamente siamo nel mondo.
La legge che governa il mondo meccanico è stata trovata, una ed universale, la legge della gravitazione. Spiega molto bene il mondo comune, quello dei nostri contrattempi. La scienza normale che ne consegue recita che ogni evento è determinato, cioè prevedibile quando si conoscano i dati del sistema: le coordinate dei punti, le velocità…
Ma avventurandosi l’uomo nei segreti della materia, nell’infinitamente piccolo delle particelle che compongono l’atomo, ha dovuto fare un passo indietro, ammettere una certa indeterminazione, il principio di Heisenberg, appunto. A livello degli elettroni possiamo piuttosto parlare di probabilità che essi si trovino in un certo punto. E così la causalità ha dovuto ridare un po’ di spazio alla casualità. In fondo riconnettersi a quella deviazione casuale degli atomi nei loro urti, prevista nel mondo democriteo. Un po’ di libertà, di quella fortuna che ai nostri occhi, cui sfuggono le cause più remote, e in genere le coordinate di tutti i punti, spesso ci sembra che la faccia da padrona nel mondo.
Non è però tanto la questione della libertà e del volere umano in un mondo meccanico ciò che più ci colpisce di fronte ai nostri contrattempi quotidiani ma è l’assenza apparente di un significato. Ci accorgiamo allora che la ricerca di significato in tutto ciò che facciamo, anche nelle piccole cose, anzi ce ne rendiamo maggiormente conto davanti agli stupidi e insignificanti contrattempi, è per noi fondamentale e costante. Cerchiamo continuamente d’interpretare il mondo, di trovare dei segni nel grande come nel piccolo che ci circonda. Ma se a tratti il mondo ci appare come risultato di banali cause ed effetti, oppure proprio di meri accidenti, che ne è di questa nostra ricerca e da dove ce ne viene l’impulso?

lunedì 6 aprile 2009

Redistribuzione della ricchezza

Si è riscoperta l’ingiustizia, si parla di redistribuzione della ricchezza: in questo caso dai ricchi ai poveri - perchè il sistema di per sè tende nelle sue crisi all'opposto, a riconcentrare la ricchezza su pochi - di crescita sostenibile, quando fino a pochi mesi fa era la libertà a tenere banco: quella del mercato naturalmente. Un sistema quello del capitalismo occidentale sopravvissuto e trionfante sulle catastrofi del Novecento e perciò accolto, per mancanza di avversari, come il migliore dei mondi possibili, quando per contro la capacità di immaginare il futuro e nuovi mondi si è andata perdendo nell’appiattimento del villaggio globale, cresciuto su questo modello, con la sua tendenza ad occultare le identità, quei passati da cui le idee per il futuro si alimentano.
Questo capitalismo però è ora entrato in una fase di crisi acuta, affrettata e ancor più accentuata da una scellerata speculazione finanziaria. Crisi tali però sono previste dagli esperti che conoscono le pecche del sistema e sanno che allora occorre immettere dall’esterno dei correttivi, come una certa redistribuzione della ricchezza in senso contrario a quella attiva dentro il sistema; insomma ricordarsi dell’ingiustizia per correggere la libertà - eccessiva - del mercato. Perché alla fine sembra che questa libertà vada sempre in una direzione contraria alla giustizia sociale, e dopo aver creato un certo benessere torni ad accumulare la ricchezza nelle mani di pochi e a far impoverire molti. La crisi “reale” sarebbe questa, che la gente non si ritrova più i soldi in tasca per consumare, quando il mondo intorno a lei è pieno di supermercati e negozi che straripano di merci. E questo è realmente assurdo, nel senso che ci siamo allontanati troppo dalla realtà delle cose.
Chissà se l’Africa è poi contemplata nella nuova sete di giustizia e di redistribuzione della ricchezza che sta percuotendo l’Occidente.

mercoledì 25 marzo 2009

Una casa per tutti









E se poi potranno “partecipare” al piano di sviluppo edilizio, quello che dovrebbe avviare la ripresa economica del Bel Paese, solo i proprietari di case mono e bifamiliari, cioè di ville e villette, allora non possiamo che rilanciare: una casa per tutti!
Come ha detto il Presidente degli Stati Uniti in una intervista, le leggi devono essere applicabili a tutti i cittadini. Chi la casa non ce l’ha è stato già escluso dai benefici dell’abolizione dell’Ici, che pure è stata motivata dal Governo con l’idea che la casa è un diritto.
Adesso, se l’ampliamento delle case nei palazzi crea troppi problemi, si demanderebbe l’incremento edilizio ai ricchi e ricconi proprietari di villette a schiera e villone, che già infestano le nostre campagne e che non sembra, a guardarsi in giro, che abbiano mai smesso di essere costruite ed ampliate. I cittadini che non hanno casa, magari, dovrebbero pure ringraziarli perché risollevano le sorti economiche del Paese.

mercoledì 11 marzo 2009

Il fantasma della libertà



In un articolo di Ralph Dahrendorf, comparso circa una settimana fa, sui pericoli per le democrazie in tempo di crisi, si osservava, tra le altre cose, come i cittadini della classe media, ma ormai la classe media si è enormemente dilatata e quindi più in generale i cittadini che vedono in pericolo il loro reddito, divengano disponibili a cedere sul piano delle libertà che loro spettano per una maggiore sicurezza sia sociale ma soprattutto economica.
Il caso del nostro Paese in questi giorni in cui il governo si prepara a varare nuove disposizioni su diversi fronti, l’edilizia, le infrastrutture, i regolamenti di voto in Parlamento, e perfino la caccia, val la pena di essere esaminato dal punto di vista di Dahrendorf.
Prima però vorrei fare qualche osservazione sulla crisi economica mondiale che attualmente ci grava sulla testa. Questa crisi è stata provocata dalla speculazione finanziaria. Infatti essa non è contemplata dalla disamina di Dahrendorf, che invece si “attarda” a spiegare le difficoltà cui vanno fisiologicamente incontro – cioè sono state previste e già studiate da economisti, sociologi e intellettuali in genere - le società capitalistiche avanzate, e che riguardano, in sostanza, il mantenimento, dopo un certo grado del loro raggiungimento, di alcuni parametri fondamentali, quali il welfare, cioè il grado di benessere, il livello di occupazione etc etc. Già nel mondo tratteggiato da Dahrendorf, nonostante i correttivi da lui indicati, s’intuisce che il capitalismo moderno non è affatto il migliore dei mondi possibili, e viene il dubbio che esso non abbia via d’uscita: quando la polarità tra ricchi e poveri s’attenua il sistema va in crisi, la crescita si arresta e alla fine l’unica soluzione, interna, cioè da parte del sistema, sarà proprio quella di ridistribuire le ricchezze in modo che i ricchi tornino molto più ricchi e i poveri molto più poveri, così che il trend positivo possa ricominciare. La crisi finanziaria attuale rappresenta un lato ancora più oscuro di questo mondo imperfetto e contribuisce a produrre, anzi accelera, lo stesso risultato finale: la "ridistribuzione della ricchezza" con alcuni ricchi che diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Questo senza che terremoti, cataclismi, guerre o pestilenze siano intervenuti a cambiare nella realtà lo stato dei beni primari, da cui procede la nostra sussistenza. A ben pensarci, si tratta di crisi virtuali.
Sono meccanismi più grandi di noi. Ma se anche dovessimo tornare “con le pezze al culo” potremmo ancora tenere alla dignità e alla libertà. Potremmo almeno stare attenti a non venderci l’anima. E a quale prezzo poi? Per trasformare il balcone in una stanza in più? Per imbalsamare qualche povero animale?

domenica 8 marzo 2009

Giovanna d'Arco


Ingres, Giovanna d'Arco all'incoronazione di Carlo VII, Louvre.


Facendo zapping, seduta sul divano in un pomeriggio domenicale, mi sono trovata a tu per tu con Giovanna D’Arco, attraverso il film di Christian Duguay. Scettica all’inizio verso questo programma per la televisione, ho finito per calarmi in pieno nella sua rapida, fulminante epopea, consumatasi pressappoco in due anni, finita sul rogo quando ne aveva appena diciannove.
Nasce in un villaggio, Domrémy, una contadina. Molto probabilmente analfabeta, ma educata religiosamente dalla madre. All’età di tredici anni comincia ad avere le sue visioni. Siamo al culmine della guerra dei Cent’anni. La Francia è profondamente divisa tra gl’invasori inglesi, la corte borgognona e il delfinato di Carlo VII. Giovanna cresce in un territorio dove le diverse influenze si fanno sentire e la popolazione è continuamente esposta ai soprusi delle truppe mercenarie di passaggio. Può una ragazzina contadina, la cui unica educazione è stata quella religiosa familiare, maturare un così alto pensiero nazionale, civile, patriottico e nello stesso tempo religioso, essere così grandemente ispirata e saper trovare la forza di guidare sapientemente un esercito? Giovanna lo ha fatto. E’ dunque per me un grandissimo esempio della forza che può provenire anche dalla gente comune, dal popolo.

Giorgio Spini, nella sua Storia dell’età moderna, che comincia praticamente un secolo dopo la vicenda di Giovanna, la ricorda affermando che lo spirito della Francia moderna è nato dalle sue visioni, oltreché dalla ragione giuridica dei legisti della monarchia. Come dire, secondo Spini, dalle componenti dello spirito romano, ordinatore, costruttivo e stoico, e dello spirito gallico, che ritroviamo in Giovanna, con: - la sua implacabile logica consequenziaria, il suo impeto ignaro di compromessi e di paura, le sue visioni che sfidano ogni scetticismo. -.

Nel suo Autunno del Medioevo Johan Huizinga si occupa dei due secoli che precedono il Rinascimento, particolarmente nell’ambiente borgognone, e comprende la parabola di Giovanna, ricordandola con diverse citazioni, ma più che altro per esemplificare quegli aspetti sociali e di costume che caratterizzano la sua particolare angolazione storica. Ad esempio, Huizinga ci dice che nel 1432 erano ancora molto in voga delle liste dei maggiori eroi cavallereschi, come il gruppo dei nove eroi, di cui era stata compilata anche una versione al femminile, e che questi eroi si volevano portare a dieci e, in campo femminile, il nome d’aggiungere avrebbe dovuto essere quello di Giovanna, ma non se ne fece nulla. Dice Huizinga: - Un gruppo eterogeneo di generali, che aveva combattuto accanto o contro Giovanna, occupa nell’immaginario dei contemporanei un posto molto più elevato che non la contadinella di Domrémy. Molti parlano di lei senza commozione o venerazione, più che altro come di una curiosità. -. Ma questo non ci stupisce perché il mondo che Huizinga ci descrive sta scomparendo, imputridisce, mentre con Giovanna è una Francia nuova, come rileva Spini, che avanza!

Le visioni di Giovanna erano visioni di santi: san Michele arcangelo che in Francia aveva il suo santuario a Mont San Michel, da opporre a san Giorgio protettore degl’inglesi, Santa Caterina d’Alessandria, e Santa Margherita d’Antiochia. Sappiamo come gli arcangeli, angeli guerrieri, furono particolarmente venerati dai popoli barbari che si convertivano al cristianesimo, e le due sante erano tra le più grandi per le più antiche comunità cristiane e fino al tardo medioevo. Era la madre a raccontarle le loro storie edificanti.Queste figure femminili possono aver suggerito a Giovanna di poter confidare in se stessa in un mondo di uomini.
In proposito Huizinga osserva che, mentre il culto delle loro reliquie era in quel periodo all’apice, i santi comparivano relativamente poco nella sfera delle esperienze sopranaturali. Proprio in ciò Giovanna è, non a caso, un’eccezione. Secondo Huizinga, dagli atti del processo risulterebbe che la stessa Giovanna proprio durante gl’interrogatori si sia chiarita chi erano i santi che le apparivano per darle consigli: dapprima ella parla solo del suo Conseil senza dargli un nome; soltanto in un secondo tempo lo indica con le note figure dei santi.
Ma ciò accade perchè le sue visioni sono una sintesi potente che avviene nell’animo della ragazza e perciò rifuggono in lei dall’essere analizzate. Sintesi dai racconti materni, la storia religiosa tramandata, è questa la sua cultura, sintesi del sentimento della patria da liberare e riunificare, della sofferenza del popolo, è questa la sua esperienza, sentiti così fortemente da poter aspirare a diventarne lei stessa strumento d'attuazione. In un mondo ancora medievale dove tutto è creato e sottoposto al controllo diretto di Dio, sentimento religioso e sentimento patriottico e civile giungono con Giovanna ad una sintesi nuova.


Seduta sul divano davanti alla televisione la vedo cavalcare verso Orleans, preoccuparsi di rifornire di viveri gli abitanti della città assediata; chiedere, informarsi e trovare le mosse giuste per liberare la città; ferita, farsi estrarre una freccia e rimontare a cavallo, guidare e spronare i compagni.
Non sto bene, sono nei giorni un po’ più pesanti della terapia che sto seguendo, e m’incanto a guardare Giovanna. Penso alle nostre fragilità di donne anche quando stiamo bene e alla grande forza che deve averla animata: il suo essere grandemente ispirata trascinava il suo corpo.

Giovanna è santa. Il suo spirito religioso è genuino e la sua vita si è conclusa col martirio, solo che a sottoporvela fu proprio la chiesa istituzionalizzata. Anche se la sede di Roma non fu interpellata e vent’anni dopo le rifece il processo riabilitandola e proclamandola martire della fede, essa aveva dotato di così terribili strumenti i suoi vescovi!

L’abiura fu un momento di debolezza che però le precluse ogni via d’uscita. Ma Giovanna non volle tradire se stessa, la sua fede, la sua missione, tutto ciò in cui aveva fortemente creduto. Bisogna esporsi come insegna il Cristo esposto in Croce: Giovanna giunge a questa consapevolezza e, sul rogo acceso, vuole che le si ponga davanti una croce.

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