giovedì 29 ottobre 2009

La morale della storia

Non c’è solo la crisi economica.
Che pure pesa molto su certe categorie in particolare. Sui giovani che perdono il lavoro precario, perché nei momenti di crisi l’egoismo di chi già possiede fa sì che proprio i giovani siano le prime vittime.
Sui lavoratori dipendenti che non hanno stipendi elevati. I loro stipendi sono rimasti fermi negli anni: quando con il cambio della moneta da noi si ebbe il raddoppiamento dei prezzi e quando poi, per sanare il debito, si aumentarono le tasse, che solo i lavoratori dipendenti pagano di sicuro. Ora c’è la crisi e gli stipendi sono sempre fermi ma anche la quota per votare alle primarie del Pd raddoppia a due euro!
Eppure non ci sono solo i soldi. Perché lasciati a se stessi i soldi guardano solo ai soldi e basta. C’è pure la crisi dei costumi, il non arrossire più, la spregiudicatezza estrema con cui si accolgono comportamenti scandalosi. Cioè non ci si scandalizza più. Ma una società, senza essere bigotta, deve pur mantenere, in evoluzione, e perciò modificabile ma comunque ineliminabile, quel senso del pudore che sta alla radice dell’individuo, nel suo intimo più delicato. E lo Stato da parte sua anche se pienamente laico non può rinunciare alla moralità, al rispetto dei valori condivisi della nazione.
Da questo punto di vista noi italiani dovremmo rifletterci su. Tutti possiamo sbagliare, ma se a sbagliare sono molti e noti non per questo si cancellano gli errori. Era questo un teorema già emerso ai tempi di tangentopoli: la normalizzazione del comportamento deviante perché tutti sono coinvolti.
Perché gli onesti e gli innocenti non spariscono mai. Molto probabilmente, grazie a questa polarità il genere umano va avanti e la giustizia dovrebbe servire proprio a questo: a riequilibrare le forze.
E se finora ci siamo salvati dallo sbagliare dovremmo rallegrarci e non invidiare ed ammirare i noti che le fanno i tutti i colori.Quando Veronica Lario scrisse la prima volta per protestare come donna e moglie si pose la discussione sul piano dei rapporti tra pubblico e privato, Che c’entrava il femminismo? Dopo quest’estate e dopo Rosy Bindi, s’è chiarito che il femminismo e il rispetto delle donne c’entrava e c’entra moltissimo, come del resto non può non essere proprio nell’interfaccia pubblico/privato.
Dunque una battaglia morale, dove le donne come oggetto non possono che essere state le prime a sollevarsi, si apre nel Paese.

martedì 13 ottobre 2009

Le donne protestano ma gli uomini...

Da una parte ci sono le donne che dopo l’incidente televisivo a Porta a Porta tra Rosy Bindi e il Premier hanno deciso di protestare rinfiammando un femminismo che sembrava in cenere di fronte al velinismo imperante.
Da un’altra ci sono i giornali e i giornalisti e lo scontro verbale si fa sempre più duro. E’ innegabile che la linea del Corriere della Sera sia ultimamente molto vicina al governo. Ricordiamo invece tempi in cui i due grandi giornali del Nord, La Stampa e Il Corriere, dettero entrambi prova di pensiero indipendente come nel caso della guerra contro l’Iraq del 2003, mostrando apertamente il loro dissenso verso la nostra partecipazione e facendo così infuriare il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi: allora Ferruccio De Bortoli lasciò il Corriere. Adesso è tornato a guidarlo. Per carità, ognuno sa i fatti propri, ma la linea di un grande giornale che deve fare informazione e fa opinione ci riguarda tutti. C’era già stato il caso di Bruno Vespa, che è oggi un fedelissimo perché ai suoi tempi era stato congedato dalla rai democristiana. Insomma rancori e rivalse personali - "quand'ero in difficoltà i colleghi... nessuno mi ha difeso"- sembrano essere alla base del comportamento di personaggi di rilievo del mondo dell’informazione, i più noti, quelli che emergono dal mondo mediatico, ma nell’ombra chissà quanti si regolano così, in questo Paese che sembra aver smarrito il senso della cosa pubblica.
Così se oggi le donne protestano gli uomini tacciono e chinano il capo. Stranamente, in questo momento sono proprio gli uomini a mostrare di avere una visione molto più personale e privata della politica e della storia, opposta a quella del personale è politico degli anni Settanta; in altre parole, sembra proprio che per loro il politico è personale.
Dobbiamo contrastare questa personalizzazione. A fare la sostanza della cosa pubblica negli Stati moderni è la democrazia. Non ci si può perciò limitare alla polemica tra giornalisti, anche se alla base di questa ci sono questioni fondamentalissime come la libertà di stampa, il diritto d'informazione e di critica, non può di certo essere questione di storie personali, ancor più non è un affare che si può dire: ci penso io: è cosa che deve riguardarci tutti come cittadini.
Corre quest’anno il centenario della nascita di Norberto Bobbio. Ripensando ai disastri del Novecento, alle dittature che l’hanno caratterizzato, Bobbio commentava che su queste infine ha sempre avuto la meglio la democrazia.
Cioè, la ragione.

giovedì 8 ottobre 2009

Il baluardo della Carta, ma non prendetevela con i moschettieri

Dunque abbiamo rischiato di fare un brutto passo indietro, verso un Ancien Régime nostrano, osservati con sbigottimento e apprensione dagli altri Stati moderni e costituzionali. Con un primus super pares che neanche al re di Francia era concesso dagli altri nobili ai tempi della Fronda, prima che Luigi XIV riuscisse ad imporre il regime assolutistico.

E i moschettieri di Dumas in Vent’anni dopo, cioè durante la Fronda, non a caso si separano: due stanno con il re e il cardinale e due con la Fronda. Perché Dumas non era certo conservatore e reazionario, lui che seguì Garibaldi in Sicilia. Bisogna guardare dietro la prima apparenza delle cose e proprio dietro l’apparente celebrazione di quei tempi accade che i quattro amici con le loro iniziative facciano sempre di testa loro in barba agli ordini dei potenti. Non sarebbero così simpatici se fossero gli sgherri del potere!

Ma tornando ai giorni nostri, dunque la libertà e l’uguaglianza sono patrimoni che vanno tutelati nella vita di tutti i giorni: non ci sono dati una volta per tutte.

Siamo assistiti però da un ottimo guardiano che è la nostra Costituzione, che a sua volta si avvale della separazione dei poteri, che oggi abbiamo visto alla prova con la questione del Lodo Alfano. Non riesce d’aggirarla, di modificarla nella sua essenza, cioè nelle sue leggi costituzionali, senza una maggioranza che difficilmente un partito o una coalizione può ottenere da sola: per poter cambiare la Costituzione in qualcuno dei suoi punti fondamentali ci vorrà sempre la concordia e l’unità del Paese.

lunedì 5 ottobre 2009

D'Artagnan e Porthos, gli antenati letterari di Asterix e Obelix

Mi mette sull’avviso, in Vent'anni dopo, il fatto che quando Athos e Aramis, sulle tracce di D’Artagnan e Porthos interrogano l’oste che infine li ha veduti, e come poi dirà ha assistito al loro arresto, questi fa vedere loro un troncone della lama di una spada che Athos riconosce per quella di D’Artagnan:
"Del grande o del piccolo?"
domanda l’oste. E siccome Athos risponde ch’è del piccolo il riconoscimento è fatto. Dunque la coppia D’Artagnan e Porthos si caratterizza come il grande e il piccolo.

Altre peripezie e ritroviamo da vicino D’Artagnan e Porthos, prigionieri nel castello di Rueil. La descrizione del loro comportamento in cella e di come ne vengono fuori, insieme al ricordo che erano stati identificati dall’oste come il grande e il piccolo: queste cose tutto ad un tratto mi fanno pensare ad Asterix e Obelix!
La scena si apre con D’Artagnan che passeggia come una tigre in gabbia e Porthos riposa dopo aver abbondantemente mangiato:
"L’uno pareva privo di ragione, e invece meditava; l’altro sembrava meditare profondamente, e invece dormiva. Soltanto il suo sonno era un incubo, il che poteva essere intuito dal modo disordinato e ostinato con quale ronfava."
D’Artagnan induce alla conversazione Porthos: ha contato le ore passate da quando sono stati fatti prigionieri; Porthos risponde che potrebbero andarsene quando vogliono, basterebbe sfondare la porta o staccare una sbarra dalla finestra, togliere le armi alle sentinelle che arrivano… Insomma Porhos è convinto che possano andarsene con facilità quando vogliono. D’Artagnan gli risponde che non si può fare così semplicemente, prima ci vuole un’idea. Dovendo pazientare, Porthos ammette che in fondo non li tengono tanto male tranne una cosa:
Avete osservato, D’Artagnan, che ci hanno dato montone brasato per tre giorni di seguito?
Poi D’Artagnan trova un pian d’azione. E’ esilarante il loro dialogare mentre escono dalla cella, con Porthos che piega come niente due sbarre dell’inferriata della finestra, le toglie e tira su per il collo la sentinella svizzera attirata.

L’astuzia di D’Artagnan e la forza smisurata insieme con l’interesse per il cibo di Porthos, la facilità prevista dell’evasione e il ritardarne l’attuazione, la noncuranza e lo scherzare mentre abbattono i nemici, come fanno Asterix e Obelix, nelle loro storie, con i romani: secondo me le somiglianze sono sorprendenti. Evidentemente c'è nell’immaginario francese questo tipo di coppia, radicata da molto tempo, ed è già nella penna di Dumas.

venerdì 2 ottobre 2009

Dumas, che storia è la trilogia dei moschettieri?



Recentemente Abraham Jehoshua ha osservato che la storia s’impara meglio nei romanzi, portando come esempio Guerra e Pace di Tolstoj.

Che dire in merito della trilogia dumasiana, che copre cinquant’anni di storia tra il 1625 e il 1673? In realtà di questa colossale scrittura sono stati sempre posti in rilievo altri aspetti, quali la personificazione del mito dell’avventura da cui la società moderna va estraniandosi (Filippo Burzio) o la capacità d’incidere sul codice immaginativo dei lettori elevando personaggi e situazioni a livello tipico (Umberto Eco). Antonio Gramsci, che si è occupato di Dumas nei suoi scritti sulla letteratura popolare, ne ha sottolineato la funzione d’attivare la fantasia popolare : il romanzo d’appendice sostituisce (e al tempo stesso favorisce) il fantasticare dell’uomo del popolo; come pure la concretezza fiabesca che gli eroi del romanzo d’appendice assumono agli occhi del popolo.
Gramsci classifica per tipi il romanzo popolare e considera quello di Dumas tra lo storico e il sentimentale: gli riconosce un carattere ideologico-politico che però non è spiccato ed è piuttosto pervaso da sentimenti democratici generici e “passivi” e spesso si avvicina al tipo “sentimentale”. Secondo altri invece i contenuti e le istanze ideologico-politiche nel romanzo di Dumas sono lasciati da parte o in secondo piano e la storia è sì il terreno d’elezione ma solo per il puro divertissement (Francesco Perfetti, Introduzione a Il Visconte di Bragelonne, Newton Compton). Secondo quest’ultima interpretazione nel ciclo dei moschettieri vi sarebbe, per di più, una visione – altro che democratica - idealizzata e tutto sommato positiva dell’Ancien Regime.
Con la lettura ancora fresca di Vent’anni dopo proviamo a valutare la qualità della trilogia dei moschettieri proprio come romanzo storico nei suoi aspetti ideologico-politici verificando quanto e che cosa nel romanzo si ricavi sull’Ancien Regime.

L’Ancien Régime
E’ l’organizzazione politica e sociale precedente la Rivoluzione Francese che appunto in Francia, dove questo modello s’era codificato, ne sovvertì l’ordine. Fu restaurato nella sostanza con il Congresso di Vienna nel 1815 fino alle successive rivoluzioni e costituzione degli Stati moderni.
In questo sistema la società è divisa in tre stati più uno, che, dal basso verso l’alto, sono i poveri, il cosiddetto quarto stato, i borghesi, il clero e la nobiltà: è stato osservato che i tre moschettieri, nell’ordine Porthos, Aramis e Athos, rappresentano appunto i tre stati generali.
Assioma fondamentale, cardine di tutto l’Ancien Régime, è che il Re, in cima alla nobiltà, ha per nascita e direttamente da Dio il diritto di governare: per nascita e diritto divino ne ha le doti necessarie, e, a scemare col grado di nobiltà, gli attributi divini di doti intellettuali e morali appartengono anche agli altri nobili.

Sull’argomento ho trovato interessanti alcune pagine di un romanzo di Goethe.

Goethe
Nel romanzo Wilhelm Meister, la vocazione teatrale (1785) il protagonista Guglielmo-Goethe si è accodato ad una compagnia di teatranti, verso cui in quei tempi la considerazione come ceto sociale era minima, incontrata durante un viaggio intrapreso per sistemare alcuni affari commerciali della ditta paterna e con loro ha l’occasione di essere invitato nel castello di un Conte che vuol offrire uno spettacolo teatrale al Principe suo ospite, di passaggio col suo esercito. Per Guglielmo è un momento di verifica, di riflettere sulla sua inclinazione per il teatro e il suo posto nella società:
"Un abisso lo divideva ormai dalla vita borghese di un tempo, un nuovo ceto lo aveva accolto tra i propri adepti quando ancora credeva di essere un estraneo costretto ad aspettare fuori della porta.”.
In particolare, è l'occasione per osservare da vicino la nobiltà, partendo dalla considerazione di quali alte doti i nobili debbano possedere:
Tre volte felici sono coloro che la nascita stessa innalza al di sopra dei gradini inferiori dell’umanità, che non hanno bisogno di affronare situazioni in cui tanta brava gente si dibatte per tutta la vita…
Salute dunque ai grandi di questa terra! Salute a tutti quelli che li possono avvicinare, che possono attingere a questa fonte e godere di questi privilegi! E ancora salute al buon genio dell’amico nostro, che si accinge a guidarlo verso queste vette felici!
Che delusione, che mortificazioni attendono Guglielmo e i suoi amici commedianti! Anche il meno intelligente degli attori noterà l’incompetenza dei signori nel giudicare delle arti e della recitazione. Guglielmo, che presentato al principe gli snocciola l’aneddoto secondo cui Racine sarebbe morto di dolore perché Luigi XIV non lo stimava più, ne sperimenterà di persona sul piano morale, dialogando con uno di questi signori, il capriccio e ancor peggio la freddezza e durezza di cuore.
L’avventura si conclude con ben altre esclamazioni nei confronti della nobiltà rispetto a quelle iniziali:
Non li biasimate per questo; compiangeteli piuttosto!
Con l’elogio, al contrario, di chi non avendo nulla per nascita è capace di dare tutto di sé, in ciò essendoci veramente del divino:
Soltanto a noi poveri che possediamo poco o niente, è dato godere in larga misura le gioie dell’amicizia…Quale felicità, quale godimento per chi dà e per chi riceve, quale sovrumana beatitudine ci garantisce la fedeltà del nostro affetto! Essa dà una divina certezza alla transitoria condizione dell’uomo…
Dumas
Ci sono due episodi significativi in Vent’anni dopo da mettere a confronto. Nel primo Athos nel separarsi dal figlio Raul, quindicenne che va ad arruolarsi nell’esercito del frondista principe di Condé, lo conduce a Saint Denis, a visitare le tombe dei re di Francia e qui gli fa un sermone sulla monarchia:
Raoul sappiate distinguere i re dalla monarchia; il re non è che un uomo, la monarchia è lo spirito di Dio.
Pur distinguendo il margine della responsabilità umana, nelle parole di Athos c’è tutta la concezione gerarchica del mondo nobiliare propria dell’Ancien Regime:
Se questo re è un tiranno, perché l’onnipotenza ha in sé una vertigine che la spinge alla tirannia, servite, amate e rispettate la monarchia, cioè la cosa infallibile, cioè lo spirito di Dio sulla terra, cioè la scintilla celeste per la quale l’umana polvere si fa così grande e così santa che noialtri gentiluomini, anche d’altissima stirpe, siamo poca cosa davanti a questo corpo disteso sull’ultimo gradino di questa scala, come questo stesso corpo davanti al trono del Signore.
Ma non dobbiamo dimenticare che colui che parla partecipa attivamente alla Fronda e del resto Raoul, che risponde che adorerà Dio, rispetterà la monarchia, e cercherà, se muore, di morire per il re, per la monarchia o per Dio, e conclude:
Vi ho compreso bene?”,
farà la prova, poco oltre, di come sia difficile comportarsi secondo questi intendimenti nella vita pratica. Nel secondo episodio, infatti, lo ritroviamo che, richiamato proprio dal grido “In nome del Re”, irrompe in scena e si lancia sulla folla di parigini che vuole opporsi all’arresto del consigliere Broussel. Sopraggiunge D’Artagnan che lo salva dall’essere sopraffatto.
A tafferuglio concluso, rimasti soli, D’Artagnan rimprovera Raoul, per il suo intervento, anche se ha aiutato le guardie del re a compiere l’arresto. Raoul invece sembra fiero di sé, gli sembra di aver fatto il suo dovere, di aver difeso il re.
E chi vi ha detto di difendere il re?
Il tono di D’Artagnan è duro: proprio Athos, il conte di La Fere, andrebbe su tutte le furie se sapesse di questa uscita di Raoul; il giovanotto ha commesso un’enormità, s’è immischiato in cose che non lo riguardano. Ora non è solo che siamo ai tempi della Fronda: è che sotto sotto Dumas sbriciola la monarchia e con essa tutto l’Ancien Régime: perché ci fa vedere spregiudicatamente e d’un tratto come uno squarcio, come il piombare di Raoul sulla scena, che il concetto di tutelare la monarchia non si può tradurre in un’azione chiara e netta per un giovane valoroso e pieno d’ardore, che la monarchia è un ideale vago e inconsistente.

Del resto il giocare con la storia che fa Dumas attraverso i suoi moschettieri è del tutto irriverente verso i potenti, in fondo falsi protagonisti oppure solo protagonisti di facciata: perché le cose potrebbero essere verosimilmente andate come lui ce le descrive e i quattro amici, rappresentanti dei diversi ceti sociali, essero loro il vero motore della storia, sempre in movimento, sempre pronti all’azione: anche loro come i poveri commedianti di Guglielmo-Goethe portatori di valori essenziali, l’amicizia, la lealtà e la fedeltà, che i potenti mostrano in mille occasioni, da Anna d’Austria a Mazzarino, di non sapere dove stanno di casa.

Nei mille intrighi tessuti e disfatti c’è pure una verità storica: come non considerare che la nostra storia attuale, anche quella di questi giorni, ne è purtroppo piena? Solo che nella realtà manca l’arte dello scrittore, la leggerezza e l’eleganza con cui i moschettieri – e ognuno dei compagni mitiga gli eccessi del carattere degli altri- dominano infine le situazioni, a sollevarci dallo squallore e dalla meschinità delle macchinazioni.

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