sabato 18 dicembre 2010

Se una notte d’inverno un viaggiatore: il cittadino e la mediocrità dei servizi.

Chi è stato fortunato c’ha messo anche cinque ore per tornare a casa. Altri tutta la notte. Notte di gelo e neve e pioggia, nei pulmann, sui treni e sulle autostrade, bloccati. Il disagio fisico che abbatte il morale e avvilisce: in che Paese viviamo dove il cittadino conta così poco e manca la civiltà dei servizi proprio sulla strada, a fianco e a sostegno dei viaggiatori? Nel medioevo si sapeva che chi si metteva in viaggio era esposto al pericolo, oggi quel senso dell’impresa nel muoversi di tutti i giorni, sia per brevi che per grandi distanze, sarebbe sopito, eppure lungo le traiettorie dei nostri mezzi di trasporto sempre in realtà siamo esposti, ancor più in un paese dove la qualità dei servizi è scadente. Oggi è stata la neve: rapida è scesa a ricoprire le strade e subito s’è visto, a camminarci, ch’era infida, gelata e sdrucciolevole. Ma d’estate anche una strada di città, sotto il sole e sull’asfalto del marciapiede entrambi roventi, una strada non secondaria, può risultare una trappola per il viaggiatore, senza tettoia dove ripararsi, ad aspettare l’autobus anche mezzora, che poi dal vicino capolinea arriva già pieno che non si può entrare.
Si tratta della qualità della vita del cittadino e quindi del grado di civiltà e di benessere del Paese, che abbassa ancor di più il nostro posto nel mondo.

Colpiti dalla neve













...
comunque...


venerdì 26 novembre 2010

L'onda che sale sui monumenti antichi

L’autunno caldo quest’anno lo fanno gli studenti. Veramente ogni anno ci provano. Prima era L’Onda, adesso è un po’ come quando si sono scoperti i fossili marini sulle montagne, al contrario però: l’onda fresca è arrivata sui monumenti antichi, sul Colosseo, sulla Torre di Pisa: il futuro reclama l’antico, sente che gli appartiene e che entrambi sono minacciati.

giovedì 18 novembre 2010

Capire l'Italia nel Veneto e a Pompei

Le contrapposizioni a volte sono utili e produttive, altre volte sono retoriche, altre ancora sono solo becere, come quando si oppone la necessità d’intervento dopo l’alluvione in Veneto a quella per il restauro e la conservazione del sito archeologico di Pompei dopo il crollo della cosiddetta Casa dei Gladiatori. Comune è il fattore scatenante, l’inclemenza della natura quando è inclemente, cioè le piogge, comune l’inadeguata prevenzione umana.
Se il porre riparo ai danni provocati nelle terre venete attiene al viver quotidiano, al presente immediato, mentre a Pompei occorre rinsaldare le murature della nostra memoria storica, le fondamenta del nostro passato, d’entrambe ha bisogno e si alimenta la nazione.
I soldi quando servono si trovano. E che? Un Paese che vanta di stare tra gli otto più industrializzati del mondo, che si dice ed è ricco – anche se la ricchezza è molto mal distribuita – non può intervenire in Veneto come a Pompei?

Allora che si smetta di additare le nostre gloriose e grandiose rovine come “quei quattro sassi”. Di questo spregio, in quanto suggerito, oltreché dall’incultura, dalla spinta alla cementificazione, insofferente di vincoli e tutele, e quindi dalla mancata tutela dell'ambiente come bene per sè, il Veneto è vittima come Pompei.

giovedì 4 novembre 2010

Raccontare e ricordare

Il raccontare allunga la vita, esempio classico la fatica di mille e una notte di Sherazade: dunque è un opporsi alla morte, una sotterranea tensione verso l’eternità. Perché chi racconta ricorda, o almeno questa è la sua funzione apparente anche quando è una finzione; non a caso le favole cominciavano con "C’era una volta". Così col raccontare costruiamo un altro tempo, un tempo che va all’indietro e spesso giunge all’inizio – come in Tolkien con il Silmarillion - e così diventa circolare perché dalla fine – il presente in cui ci troviamo noi che ascoltiamo chi ci racconta - ci ricongiungiamo a quando tutto è cominciato. Allora possiamo muoverci avanti e indietro dentro questo cerchio dove non possiamo che essere tutti e che non può che essere l’eternità.
Così quando raccontiamo storie o di cose che ci sono accadute e ascoltiamo gli altri che ce le narrano, tessiamo in fondo la nostra eternità; molto probabilmente ci poniamo, in realtà, in una ricerca affettiva, cerchiamo d’entrare nel cerchio dove siamo tutti, i vivi e i morti.

venerdì 8 ottobre 2010

Filastrocche d'estate

Giro girotondo casca il mondo.
Se la canta una bimbetta su una biciclettina con la quale prova a disegnare un cerchio stretto in quest’angolo del piazzale affollato dove mi trovo a passare nel tardo pomeriggio estivo. Si capisce che vuole provare l’ebbrezza di un altro modo per andare, da sola però, giù per terra.
La vicina della casa di fronte, che è rumena, esce la mattina dal portone col passeggino e la sorprendo che anche lei, senza andare in tondo, canta al suo bambino “Giro girotondo”. In questo caso è un evocare, un rinsaldare nella memoria di entrambi il gioco del girotondo con la sua filastrocca. Mi stupisco a pensare che chissà perché per me, forse bambina sciocca e ligia all’autorità dei compiti come dei giochi, il girotondo si faceva e si cantava obbligatoriamente dandosi la mano, girando in tondo e poi cadendo per terra. Invece le favole e filastrocche girano a loro volta, rispuntando quando meno le lo aspetti e non muoiono mai perché ognuno può farne quel che vuole.

Siamo entrati che era già tardi, e gli altri negozi già chiusi, in una bottega di pasticceria sulla via principale del paese. Abbiamo sceso dei gradini; l’ambiente, che sapeva d’antico, si sviluppava in lunghezza con un unico bancone sulla sinistra e in fondo s’intravedeva la cucina. Una vecchia, che a malapena spuntava dal bancone, ci ha ingiunto:
- Assaggiate questo.
E questo.
E questo.
Così d’un tratto siamo sprofondati in mare di crema, cioccolato e pasta di nocciole. Ed io, sempre sospettosa, mi sono chiesta:
- Non sarà la strega di Hansel e Gretel?
- O quella di Biancaneve?
All’uscita ho esternato il mio pensiero soprannominando la vecchina per tutta la serata, mentre continuavamo a mangiare un po’ dei suoi dolci, la fattucchiera, che forse ci stava avvelenando.

Ci siamo fermati di passaggio, che era l’una passata e avevamo già mangiato un boccone, per rivedere il vecchio castello, dimora di un principe romano, e da tempo chiuso per restauro. Dalla piazza, dove busti imponenti ravvivano la facciata del palazzo, delle stradine vanno ad innervare il borgo antico. Mi sono inoltrata per una di queste, ormai poco abitate, e ho sentito un odore buono di minestra estiva e una voce bassa e tremante, la voce di una nonna, che raccontava:
- E così non poterono più ritrovare la strada che portava a casa.
Tutto si ricollegava: avevo trovato l’altra sera la fattucchiera e oggi incrociavo Hansel e Gretel.
Perché le favole non ci abbandonano mai.
E il nostro io si perde nei racconti che sono la trama, che non muore, della nostra vita.

domenica 22 agosto 2010

Soror


Quante volte nei giorni ho cercato di avvicinare il mistero di un legame così forte e profondo da sembrare oscuro.

Te ne sei andata così in fretta che ha dell’incredibile e allora è contro il tempo che insorgono le percezioni e i sentimenti. E’ il tempo che sembra non avere più ordine. Perché dovrebbe esserci ormai un prima e un dopo e invece mi sorprendo in un altro tempo, quello del dove eravamo tutti.

Ho cercato dei segni nella natura perché non sempre e non solo possiamo trovare le risposte dentro di noi e nei volti e nelle parole degli altri. Quando è la vita che lavora contro di noi dal di dentro, cieca e indifferenziata, come un alieno parassita primordiale risvegliatosi, ho cercato delle risposte guardando il mondo fuori di noi, dove natura e uomo intrecciano il loro fare, nella campagna brillante di giugno, vecchi casolari abbandonati con la loro grazia e maestà rurale, l’allegria e la freschezza dei campi di girasole, quando sono verde intenso coronato di giallo puro, e il vibrare di chiome d’alberi nei cieli aperti.
Così ho guardato nella finestra in fondo al corridoio spalancata sulle cime degli eucalipti che ondeggiavano al vento serale e sembravamo entrare dentro come spiriti intenti ad una danza: ne ho tratto un messaggio forse scontato, che si piegassero come ad acconsentire, ad un lascia che sia, dopo una dura giornata, quando non c’è più speranza.
Ma c’era qualcos’altro d’implicito nei campi di girasole, nei rotoli di fieno sparsi sulla terra rasata: natura non nemica o indifferente, anzi l’opposto, natura partecipe, lo stesso battito, una stessa sorte: il tempo, quello dove siamo tutti, che si fissa nell’attimo e anche quando non siamo più siamo per sempre.
Questo ho pensato, sorella, che siamo per sempre, e il tempo, il prima e il dopo perdono significato.

Ho ancora tanto da scoprire di te e di me, tra le tue e le mie cose, dentro le stanze del quotidiano dove, dopo questa assurda danza, possiamo tornare a chiacchierare.

giovedì 8 luglio 2010

Mondiali di calcio: campioni di un attimo

Ogni partita è stata una storia a sé. La squadra che era sembrata bella e sicura in una si mostrava debole e sbandata nella successiva con un altro avversario. Ogni partita ha rivelato forze e debolezze ogni volta in modo diverso, è questo l’interessante del grande torneo. Se è vero che le squadre europee, che infatti hanno conquistato la finale, si sono mostrate più impostate rispetto all’impeto individuale delle sudamericane, pure Brasile e Argentina sono state belle quando sono state belle, e così è stato per l’Uruguay.
Per la serie del calcio metafora della vita, da questo mondiale sudafricano potremmo ricavare l’immagine di un caleidoscopio di tante partite, dove si vince o si perde in singoli episodi o momenti, ed anche il vincitore del torneo, che riceverà la coppa e avrà il nome scritto nell’albo d’oro, sarà in fondo solo il campione di un attimo.

domenica 4 luglio 2010

Cipressi

Si stagliano nella campagna verde per un verde più scuro. La loro forma allungata già ricorda le ombre. Sembrano perciò figure fatte d’ombra, fantasmi immobili riuniti in consesso, quando tutt’’intorno è luce e vita palpitante.

giovedì 24 giugno 2010

Il mondiale degli allenatori

Maradona e Lippi.
Il nostro allenatore s’è preso tutta la colpa e ha fatto bene perché aveva puntato sul gruppo piuttosto che sulla qualità dei giocatori. Già, ma ce n’erano di giocatori di qualità che non sono stati chiamati? Un Totti, un Cassano almeno.
Maradona ha sempre detto che il giocatore di talento “può sempre fare la differenza”. E ha impostato la sua Argentina su Messi.
Da qualche mondiale a questa parte in Italia, invece, i giocatori di genio sono anche “maledetti”: dipinti come caratteri difficili che minano la coesione della squadra e creano solo problemi all’allenatore.
Ma il gioco del calcio è bello anche per questo, per l’opposizione oppure la sinergia tra il gruppo e le grandi individualità, ancora una volta metafora della vita.

lunedì 21 giugno 2010

José Saramago

Ora che non è più sulla terra José Saramago sarà tornato a Lisbona come Pessoa e come Ricardo Reis avrà preso alloggio in un albergo della città vecchia vicino al porto; forse ci sarà un altro che incontrerà il suo spirito e ce ne racconterà perché quando tutto è finito la sequenza temporale di ciò che è stata la nostra vita si distrugge e si ricompone nel pensiero di chi ci ricorda in un lavoro opposto a quello del biografo in quanto chi ricorda cerca significati.

Verso l’Italia Saramago è stato interprete di un fiero ed acceso antiberlusconismo, che ha animato diverse pagine del suo blog, O Caderno, poiché, nato nel 1922, avendo vissuto la dittatura portoghese, è rimasto particolarmente attento agli accenti di un populismo autoritario.

giovedì 17 giugno 2010

Capire l’Italia: quale cultura?

Se i nostri centri storici affondano perché hanno perso l’identità o sono abbandonati, o colpiti dal sisma come a L’Aquila, qual è il modo per recuperarli?
Quelli delle città più grandi o importanti hanno perso l’identità da quando non sono più come in passato intreccio vivo di strati sociali, il palazzo del nobile accanto ai caseggiati dei poveri, le strade che appartenevano alle arti e ai mestieri, come via dei chiavari o dei cappellari a Roma. I poveri sono stati a suo tempo sfrattati e respinti nei quartieri periferici e nelle borgate. Le case dei grandi centri storici sono diventate allora il luogo della speculazione immobiliare, appannaggio di ricchi uomini d’affari, personaggi famosi e quali regali delle cricche. I centri minori invece sono spesso stati lasciati dai loro proprietari per case più nuove e confortevoli costruite fuori dagli antichi perimetri.
Proprio nei piccoli centri qualcuno ogni tanto manifesta il desiderio di recuperarli. Come? Organizzando una pasta e fagioli, o fagioli e salsicce, comunitaria per i vicoli deserti. Oppure ricordando il borgo di pescatori, magari appendendo le reti e via dicendo.
Non è questo il modo, non è richiamando ciò che era e non è più, non è rispolverando le piccole tradizioni o riti ormai morti, semmai ci furono, come fa la Lega in riva al Po o ci s’inventa di sana pianta nei comuni lombardi.
Se nei nostri centri storici è nata la nostra identità, quel sacro luogo, che gli antichi segnavano e su cui la città sarebbe sorta, da cui tutto è partito, dobbiamo volare più in alto verso un più alto senso di attività culturali, per il quale la cultura non è richiamo sterile al passato ma progetto per il futuro. Allora i piccoli come i grandi centri, restaurati e ripuliti, devono diventare proprio loro i luoghi della cultura: biblioteche, musei, aule d’incontro e convegni non avranno mai miglior sede che dentro i centri storici. Quanto bene può fare per i giovani una biblioteca, un cineforum ed altro dentro il borgo antico, piuttosto della faciolata.
Negli antichi borghi, nei centri storici delle antiche città sono le nostre radici e da essi possiamo trarre il maggior senso civico e aspirare alla cultura nel senso più alto, come sete di conoscenza e di promozione umana.

martedì 15 giugno 2010

A sinistra del PD

Non mi piacciono, l’ho già manifestato nel post precedente, gli attacchi a Beppe Grillo e a Daniele Luttazzi, che sono mossi specialmente a sinistra nel PD. Un tempo si diceva che a sinistra del PCI non c’era niente, ma ci furono le fuoriuscite dal partito e c’era ancora nell’ultimo governo Prodi la sinistra radicale, la cui eliminazione è stato il risultato più cospicuo della caduta di quel governo e della nascita del PD. Nel partito democratico di oggi accanto a Berlusconi si pongono, spero non unanimemente, per assimilazione proprio coloro che sono stati capaci di fare contro Berlusconi l’opposizione più dura e costante. Vi vogliono vedere lo stesso populismo - berlusconismo- nel caso di Grillo, la stessa questione morale, “ha mentito”, nel caso di Luttazzi; dimodochè anche a sinistra del PD trionfi il deserto. Poco male se così Berlusconi ne trae vantaggio.

domenica 13 giugno 2010

Circa Daniele Luttazzi

Anche L’Unità continua ad attaccare a fondo Daniele Luttazzi. Evidentemente dà molto fastidio pure a sinistra. La direttrice De Gregorio si professa sua fan ma poi non manca di sparare a zero sul “cadavere” del comico, con perfetta e solita autoreferenzialità. “Nessuno mi ha chiesto ”, si è lamentato Daniele, mentre invece L’Unità l’avrebbe fatto. “E noi siamo nessuno?” si chiede infatti De Gregorio, perché il suo giornale le domande gliele ha fatte, ma mica Daniele è stato contattato per essere intervistato, no. Gli hanno fatto sul giornale dieci domande come Repubblica a Berlusconi e a quest’ultimo, infine, nell’intervento conclusivo, la direttrice l’ha associato. Conosciamo la canzone: anche Beppe Grillo sarebbe infine, nel manuale di certa sinistra, come Berlusconi, ah, ah.
Begli amici nascosti, bei fans. Viene proprio da dire: "Dai nemici mi guardi Iddio che dagli amici e dai fans mi guardo io".
Viviamo in tempi, qui in occidente, in cui la firma, l’originale, il copy right, sono tutto ma nell’arte non è detto e non è in ogni caso sempre stato così. E se oggi la firma è tutto, tutto oggi si discute nei termini piuttosto riduttivi ed insignificanti se si sia copiato o no. Un notevole gap culturale.
Quando invece la citazione e l’appropriazione nella propria opera di temi già svolti è in realtà condizione, a diversi livelli di riconoscibilità a seconda della materia, imprescindibile dell’elaborazione umana.

mercoledì 9 giugno 2010

La ragione e il bavaglio

La costanza della ragione, si diceva. L’iter di questo ddl sulle intercettazioni la mette alla prova. L’opinione pubblica contraria, ma anche la critica del Quirinale hanno condotto l’esecutivo ad apportare delle modifiche, si è anche pensato ad un certo momento che la legge sarebbe stata lasciata cadere e invece no, essa risorge blindata, pronta alla fiducia, e con cambiamenti modesti rispetto alla sostanza e quasi ridicoli nella loro attuazione, come la concessione di proroga di tre giorni in tre giorni con decisione di una commissione distrettuale di giudici che avrebbe a sua volta tre giorni di tempo per decidere. Com’è stato osservato, per mandare qualcuno all’ergastolo basta un giudice solo!
Ai finiani questi cambiamenti stanno bene: allora non era per Roma, nel senso di Tacito, cioè per lo Stato, per il bene comune, come sarebbe potuto essere per le parole usate dal presidente della Camera, che hanno combattuto ma solo per loro stessi ed il loro peso dentro il partito. Impariamo dunque, o reimpariamo, che dobbiamo sempre aspettare come le cose si sviluppino e concludano, per comprenderne il senso.
Resta dunque all’opposizione e all’opinione pubblica che è contraria di spendersi contro questa legge perché come si diceva la ragione non lascia, segue lo svolgimento delle cose e prosegue a contrastare ciò che non può approvare.
Per convincere gl’italiani che questa legge se la meritano s’è fatto appello ancora una volta ad un’Italia cialtrona, quella che sbatterebbe il mostro in prima pagina, che non saprebbe far di meglio che spiare gli onesti cittadini. E a chi gliene frega qualcosa di quello che fai tu onesto cittadino, salvo coltivare le tue paure, le tue fobie?
Ma non si può mercanteggiare la tutela della privacy, per la quale basterebbero alcune semplici misure adeguate, con la libertà d’informazione, non si possono togliere ai magistrati fondamentali strumenti d’indagine e all’opinione pubblica la conoscenza dei fatti. Non possiamo pretendere di vivere in un mondo senza pericoli a prezzo della libertà, vecchio ricatto dei governi autoritari, perché il calcolo è sbagliato: il rischio che qualcuno esponga ingiustamente la nostra privacy, e peggio ancora ci accusi ingiustamente di un delitto non può mai essere del tutto eliminato ma certamente il rischio sarà in realtà maggiore dove c’è meno libertà e democrazia, perché dove c’è la libertà ci saranno anche maggiori strumenti di difesa, perché se il cittadino sarà colpito nel silenzio chi potrà aiutarlo?
Quindi il valore della libertà è il più grande ed è attraverso la libertà d’informazione che possiamo arrivare alla conoscenza dei fatti e esercitare il nostro libero pensiero; occorre difendere la Costituzione da quelle leggi che con la scusa di farci stare più liberamente nel nostro cortile c’innalzano tutt’intorno un muro.

mercoledì 2 giugno 2010

Le smanie per il federalismo e la festa della repubblica

I gonfaloni delle regioni d’Italia sfilano per via dei Fori Imperiali nel giorno della festa della Repubblica ma i ministri leghisti sono altrove. Il più importante, il ministro dell’Interno Maroni, da qualche anno preferisce la celebrazione prefettizia in quel di Varese dov’è nato. La fronda leghista disdegna la capitale. Ma ci sono dei momenti in cui la capitale rappresenta la nazione.
Qual è allora il segno del federalismo predicato al di là del Rubicone, se non una favola disgregatrice, per di più costosissima in questi tempi durissimi per i conti pubblici, da opporre all’unità dello Stato?


mercoledì 19 maggio 2010

L'aria fritta sui conti pubblici


A seguito della crisi economica greca e della minaccia che grava sull’euro, dopo le decisioni d’intervento dell’Unione Europea, tra cui finora principalmente vi è la costituzione di un fondo d’aiuto ai paesi in difficoltà, ognuno tornato a casa sua è costretto a fare i propri conti pubblici.

La crisi infatti permane per una faccenda di credibilità dei diversi stati sovrani sui mercati: se non abbiamo credibilità non vengono gl’investitori e non acquistano i nostri bot. E’ sempre una crisi finanziaria, non dell’economia reale. Da un lato ciò significa che non basta avere un fondo comune e che l’Europa dovrebbe anche introdurre delle regole per limitare le speculazioni finanziarie che sono state quelle che ultimamente hanno provocato le crisi; dall’altro, secondo gli economisti, la credibilità sul mercato è a sua volta il martello che deve spingere gli stati sovrani ad avere un’economia virtuosa e i conti in regola.

Presto fatto, a noi italiani serve una riduzione delle spese del 5%. La fase dell’ottimismo del premier sembra conclusa; ci ritroviamo con la politica dei tagli già perseguita dal ministro dell’economia, di cui molte istituzioni hanno già fatto le spese, nel senso della sottrazione, e principalmente la scuola pubblica italiana.
Dove prendere questi soldi? Tutti, ministro compreso, siamo corsi col pensiero all’evasione fiscale. Un attimo col fiato sospeso, un flash del paese che non c’è, e poi lo sfrigolio dell’olio s’è cominciato a sentire in sottofondo; la morsa allo stomaco, per molti, moltissimi, s’è allentata e il sorriso, capacità che gli umani rivendicano come prettamente propria, ha cominciato ad aleggiare sulle loro bocche: ma va là, e chi mai è riuscito - ci riuscirà mai, il diluvio universale forse, ma no, ricominceremmo come prima – fra tutti i governi a far pagare le tasse a tutti?
Dunque se non si possono migliorare le entrate, si ridurranno le uscite: stipendi e pensioni dei pubblici dipendenti (quelli che hanno già gli emolumenti – termine più tecnico e in voga in ambito d’economia - più bassi d’Europa). Però per alleviare il colpo si pone lesti davanti il caso degli stipendi dei nostri parlamentari, che sono invece i più alti d’Europa: si comincerà a ridurre il loro. Altro attimo di fiato sospeso, flash e sorriso, che è sempre quello che ci distingue dagli animali: ma va là, i conti sono presto fatti, con la riduzione per i parlamentari non si raccoglie che una cifra irrilevante! - a questo punto l’aria fritta inequivocabilmente comincia ad entrate nelle nostre narici -. Perciò sarebbe solo un fatto simbolico, e che ce ne facciamo dei simboli noi italiani? Di un comportamento vitruoso, del buon esempio? S’è detto tanto per dire, come una forma di fairplay verso le masse, vere e uniche destinatarie dei sacrifici, un coinvolgimento per l’appunto solo simbolico delle caste.
E poi cosa aspettarsi da questi parlamentari, che disertano le sedute in aula più importanti, a cominiciare da quella dove appunto il ministro ha esposto la sua relazione sulla crisi davanti ad una cinquantina di presenti? Che potrebbero avere giorni contati per le inchieste in corso?
Da altri paesi europei traiamo altri esempi, altri simboli. Delle recenti elezioni in Inghilterra vogliamo rilevare non tanto il clima cordiale con cui è avvenuto l’avvicendamento, da molti già segnalato, quanto l’insediamento a Down Street e il parlare semplicemente per la strada sulla porta di casa, davanti alla gente.

Ma intanto il fumo della frittura s'inspessisce, quando alla buon'ora qualcuno tra gli esperti torna a dire che la crisi ci tocca perchè, conti pubblici alla mano: "Gl'italiani hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità”. Ecco il cerchio s’è chiuso. Mucche al pascolo preparatevi. E le mucche non sorridono.
Dimenticano costoro che non gli italiani in toto hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità: per una parte al di sopra , un’altra è vissuta al di sotto, è stata virtuosa anche per gli altri, che altrimenti il paese sarebbe sprofondato.
Qualcuno li fa i conti e le percentuali su questo? E i proventi della criminalità organizzata e il lavoro nero?

D’altra parte ogni cosa ha i suoi pro e i suoi contro. Il debito pubblico può essere migliorato, non solo con la diminuzione delle spese ma anche con l’aumento del Pil, prodotto interno lordo, ma la contrazione delle spese se agisce sugli stipendi, e quindi sul potere d’acquisto dei cittadini, e sulle committenze di lavoro da parte dello stato (ad esempio i cantieri per le infrastrutture) per risparmiare, tutto ciò è a sua volta un freno all’aumento del prodotto interno.

mercoledì 12 maggio 2010

Chi paga le crisi? Le mucche al pascolo

Leggo sul Paìs che Zapatero ribassa lo stipendio ai funzionari per ridurre il debito.
Altolà a chi pensasse qualcosa di simile per l’Italia, per la quale abbiamo potuto constatare, proprio ieri, che è tra i paesi, non solo europei, con gli stipendi più bassi, funzionari dello stato compresi, sotto a quelli, in particolare, pagati in Grecia e in Spagna. Gli stipendi di manager e dirigenti sono tutto un altro discorso.

E’ ormai da qualche decennio in Italia, dai governi Amato, Ciampi, Prodi, Berlusconi e ancora Prodi e Berlusconi, che risanamenti e crisi, e crisi e risanamenti sono pagati dal ceto medio stipendiato che oltre ad avere i più bassi emolumenti è pure l’unico in Italia a pagare veramente le tasse, perciò impoverisce sempre più ed è la vera “riserva aurea” da cui ricavare i quattrini.

Questo fondamentale del sistema Italia è difficilissimo da intaccare. Infatti, gli stipendiati italiani sono tenuti sotto scacco, e non è concesso loro di parlare tanto e lamentarsi con due principali argomenti: perché, da un lato, c’è chi sta peggio di loro, cassintegrati, precari e disoccupati, quest’ultimi soprattutto giovani, e rispetto a loro, gli stipendiati, cioè le mucche da spremere, sono privilegiati; dall’altro lato perché la colpa è fatta ricadere su coloro che non pagano le tasse, che sono però gl’inafferrabili. E’ con loro che gli stipendiati dovrebbero prendersela, da mucche a Don Chisciotte, mica con i governi che in questi decenni non hanno trovato modi e mezzi per sanare questa grave disuguaglianza. Con la borsa chiusa anche verso i cosiddetti ammortizzatori sociali, quali sussidi alle famiglie, ai disoccupati etc.

Così il modello Italia si manitiene attraverso le crisi e con esso le caste, i privilegi e l’impunità.

martedì 11 maggio 2010

L’Italia che si specchia nel calcio: dal campionato ai mondiali.

Il problema dell’identità sta tutto dentro il calcio, lo sport nazionale sopra tutti gli altri.
A contendersi il titolo di Campioni d’Italia fino all’ultima giornata due squadre che si presentano con tratti significativi riguardo alla questione dell’identità o appartenenza, l’Internazionale e la Roma. La prima è tutta fatta da stranieri, l’unico italiano all’anagrafe è un ugandese adottato, roba che neanche la grande Inter di Herrera e di Moratti padre, che aveva un’intelaiatura di grandi calciatori italiani ( Sarti, Burnich, Facchetti… Corso, Mazzola …). La seconda alle prese con un tifo esasperato e troppo concentrato localmente, che nella cronaca di ieri s’associa all’esultare laziale per la sconfitta con l’Inter, rivale della rivale.
Se queste sono le squadre in vetta al campionato come da queste ricavare il meglio per l’Italia, la squadra nazionale da presentare ai campionati del mondo? La prima ha da offrire un solo giocatore, la seconda ne avrebbe, a cominciare da Francesco Totti, ma questi devono ancora dimostrare quanto tengono alla maglia azzurra.
Proprio l’episodio della partita tra Lazio e Inter ha scatenato i commenti più negativi sul carattere degli italiani, sempre una parte contro gli altri. E’ vero che una nostra caratteristica è sempre stata quella di essere calati nel particulare, ma non bisogna trascurare che il rinchiudersi in piccole tribù diventa una caratteristica del villaggio globale, un fenomeno quindi non necessariamente o particolarmente italiano.
Gli italiani però dal loro particolare hanno anche saputo trarre grandi cose. Non sarà un caso che abbiamo dato al mondo così grandi e tanti geni e artisti, senz’altro dei grandi individualisti. Ma quando il particolare ha prodotto l’eccellenza è stato perché si è ricongiunto all’universale: la riflessione su se stessi, sul nostro piccolo che ci circonda è stata capace di trovare idee che parlassero a tutti, in diversi luoghi e tempi!
Roberto Baggio ha sempre detto che per lui la cosa più importante è stata la nazionale. Così già quando cominciava a giocare a calcio a Caldogno, provincia di Vicenza, già sognava il mondiale, già congiungeva il particolare all’universale.
I giocatori brasiliani che molto probabilmente vedono nel pallone il mondo, fanno anche loro da bambini questa connessione.
Francesco Totti, invece, s’è tutto fatto risucchiare dal particolare, con le sue conseguenze negative anche sul piano della sportività. La punizione maggiore da infliggergli perciò non può essere che la convocazione in nazionale, dove dovrà dimostrare che finalmente anche lui, e con lui l’Italia del Calcio, sa arrivare, attraverso l'appartenza comune, all’universale.

mercoledì 28 aprile 2010

L’Europa deve ballare il sirtaki

Nonostante la grave crisi economica mondiale abbia la sua radice nella finanza speculativa per cui negli Stati Uniti Il Presidente Obama ha deciso d’affrontare il sistema bancario imponendogli una riforma, finanzieri e banchieri ancora fanno mostra di non comprendere bene qual è la posta in gioco.

L’agenzia di rating S&P, ossia la Standard and Poor’s Corporation, il cui indice di borsa in Italia è il S&P Mib, nel valutare la situazione finanziaria della Grecia è andata oltre i termini più bassi della scala di giudizio quali insufficiente o insolvente, e l’ha definita junk, spazzatura.
Senza alcuna considerazione per una nazione in crisi, per tutti quei cittadini greci che ne faranno le spese senza esserne gli artefici.

Leggo sul Corriere: “Per contrastare possibili speculazioni la Consob greca ha vietato per due mesi le vendite allo scoperto alla Borsa di Atene. La decisione fa seguito al declassamento deciso martedì dall'agenzia di rating S&P che ha tagliato il rating della Grecia a «junk» (spazzatura). La vendita allo scoperto è un'operazione finanziaria che consiste nella vendita, effettuata nei confronti di uno o più soggetti, di titoli non direttamente posseduti dal venditore.".
Nella debole economia greca la speculazione finanziaria ha fatto la sua parte.

Il problema di fondo è dunque quello tra gli stati nazione e il sistema delle banche, dove i primi non possiedono adeguati sistemi di controllo e tutela. Per questo l’Unione Europea non può non intervenire ad aiutare la Grecia.

... O sono gli stati europei a non aver capito?

venerdì 23 aprile 2010

Duello Fini Berlusconi: per piacere lasciamo perdere il bon ton

Una rissa, uno spettacolo indecoroso – che volgarità! - l’esser scesi sul piano personale dall’aulico e ideale empireo della politica: da ciò alcuni commentatori traggono i segni evidenti della crisi, appunto politica, dentro il Pdl.
Ma non s’era detto, le donne e femministe, che il personale è politico? E quando Fini chiede: “mi cacci?” è personale ma anche politico perché si sta rivolgendo al dispotismo di chi non tollera il dissenso.
Più interessante semmai decifrare, visto che il duello è andato in scena e ampiamente registrato dai media, le parti interpretate dai due contendenti.

giovedì 22 aprile 2010

Compleanno


Quante volte, ripensandoci, dubitiamo della nostra identità, se siamo sempre gli stessi. Il flusso di coscienza cui siamo aggrappati, ci trae in inganno: non ci sono pause eppure cambiamo, nella continuità.
Ancor più ci succede con chi abbiamo visto crescere. Quante volte stentiamo a ritrovare nell’adulto il bambino; mentre al contrario certi atteggiamenti sorpresi nel neonato si sono rivelati espressione di un carattere duraturo e perciò quelle prime forme di comunicazione ci restano care e indimenticabili.
L’apparente scomparsa di quell’esser stato bambino a volte genera pena, ma a tratti nell’adulto possiamo ritrovare il bambino o meglio scopriamo dei nessi tra l’uno e l’altro, più che una continuità una conseguenza. Sono momenti preziosi, perché ritroviamo i nostri beni nascosti.

mercoledì 21 aprile 2010

Il Pd tra federalismo e riforme

Secondo alcuni, al Pd non resterebbe, per riconquistare l’Italia settentrionale, che diventare più federalista dei federalisti della Lega: un federalismo buono da opporre a quello cattivo. Per riottenere i voti di quelle terre, che costituiscono la parte più produttiva e ricca della nazione, occorrerebbero volti nuovi di dirigenti di un federato Partito Democratico del Nord che, dunque sullo stesso terreno della Lega e sugli stessi argomenti, dicesse cose diverse - per esempio l'abolizione delle province -.
Una posizione in qualche modo speculare a quella sulle riforme il cui tavolo si accetta in linea di principio, però si spingerà verso quelle buone, che servono veramente per modernizzare il Paese; anche se è ormai chiaro, e c’è la bozza Calderoli di mezzo, che al governo interessa soprattutto modificare la Costituzione verso una forma di presidenzialismo.

Leggo sul Corriere online che Giovanni Sartori ha posto dei quesiti sul federalismo ma “La risposta è stata un silenzio tombale.”. Dovrebbe dunque il Pd impegnarsi nell’elaborazione di un federalismo la cui idea piace alla gente che ha votato la Lega ma che la Lega non mostra o non sa o non può realizzare, e che più probabilmente è fumo che si mischia al vapore delle ampolle dell'acqua del Po?

Leggo ancora su L’Unità l’intervento di Alfredo Reichlin, contrario ad un Pd del nord, perché la Lega non è riducibile ad fenomeno “territoriale”, ma:
“È un grande e devastante fenomeno politico costituito dal fatto che è esplosa una contraddizione fondamentale tra i bisogni di “modernità” acuiti dalle sfide concorrenziali del mondo e l’arretratezza e la corruzione dell’apparato statale italiano, a cui si aggiunge il peso del parassitismo meridionale. La Lega è cresciuta, non perché noi non l’abbiamo imitata abbastanza, ma perché non siamo stati capaci di ridefinire un compromesso positivo tra Nord e Sud che guardasse avanti, e cioè nel quadro del mondo europeo e mediterraneo.”
Insomma, l’avanzata al Nord e in Emilia della Lega è effetto dei problemi generali del Paese, cui si deve rispondere, secondo Reichlin, prospettando "un nuovo modello di sviluppo dell’Italia".

Ecco, che quello che istintivamente c’infastidiva, il dover rincorrere la Lega, trova la sua critica razionale, che ancora una volta si basa sulla conoscenza: della posizione geografica e della storia italiana tra Europa e Mediterraneo, dei problemi strutturali che ci portiamo dietro dal 1860, come la contraddizione mai risolta tra Nord e Sud, acuiti oggi dalla sempre maggiore diffusione della criminalità organizzata.
Insomma, un compito molto difficile per l’opposizione, non a rincorrere la Lega, ma in campo aperto trovare idee nuove per difendere i valori comuni sulla cui base riguadagnare terreno.

venerdì 16 aprile 2010

La tutela della Costituzione con la conoscenza

Una società fondata sulla conoscenza, ha detto Luigi Berlinguer. Potremmo provare a farne un esempio esplicativo confrontandoci con un tema che è in cima all’Agenda italiana, la bozza di riforma costituzionale che Calderoli ha portato al Colle e che è motivo del profondo dissidio in corso tra il Premier e il Presidente della Camera. Anche se pensassimo che i problemi più urgenti del Paese siano altri, questo tema, se ci viene imposto, non può essere sviato perché riguarda la nostra democrazia e il sistema di governo del Paese.

Mi sembra invece che l’opposizione sia in una posizione d’attesa e l’unico a dare battaglia è proprio il Presidente della Camera, certamente per tutelare la sua posizione all’interno della coalizione al governo, ma facendolo concretamente, criticando apertamente la bozza di riforma – cui non è stato invitato a partecipare – almeno su un punto specifico, la legge elettorale per la quale non è previsto cambiamento, cioè entrando nel merito.

Il Pd non parla alla gente, non entra nel merito della questione. Il Premier invece lo fa di continuo e da ultimo con la gente di Confindustria a Parma. E per criticare la Costituzione, che a suo dire gl’impedirebbe di governare, non spreca parole, atteggiamento e tono della voce. Tra le varie cose sciorinate, ce l’ha con l’iter legislativo, ma abbiamo visto la fatica di Obama, che pure è a capo di una repubblica presidenziale, per far approvare la riforma sanitaria. Le leggi sono determinanti per la vita dei cittadini ed hanno risvolti e implicazioni che spesso sfuggono alla prima definizione dei legislatori, è normale perciò che esse vadano riviste e corrette: sta nel sistema legislativo di tutte le moderne democrazie.

Insomma ci vuole conoscenza e cultura dei problemi. Di questo devono ormai farsi carico i cittadini, in altre parole occorre promuovere il sapere sulla Costituzione, come funziona il parlamento, come procedono le leggi, gli organi di controllo etc. Non possiamo farci passare sulla testa cambiamenti di tale portata.E’ stato detto che il Presidente della Repubblica è l’arbitro tra governo ed opposizione e potrebbe restare solo a tutelare la Costituzione contro il suo stravolgimento. Ma nel Paese c’è un altro arbitro che alla fine decide con il voto, i cittadini. Prima del voto essi possono farsi sentire come opinione pubblica. Che questa opinione pubblica abbia la conoscenza delle fondamentali e delicate questioni che mettono in discussione la nostra democrazia.

martedì 13 aprile 2010

Chi punta sul sapere

Un po’ di scetticismo affiora dai commenti al post precedente. Un rinnovamento culturale appare oggi improbabile? ma a pensarci bene è proprio la via che ci resta da percorre se riteniamo che da questo punto di vista il Paese sia ridotto male.
Leggo su L’Unità online il commento di Luigi Berlinguer agli ultimissimi risultati elettorali, cioè gli esiti dei ballottaggio, ancora negativi per il Pd. Ci dice, riassumendo, che il partito non ottiene voti perché non è chiara la sua identità agli elettori e, viceversa, il partito non sa parlare alla gente, perché si esprime solo dentro l'ambito della politica:
"Siamo abituati a spiegare e a giudicare quel che accade rivolgendoci solo alla società politica che è sempre più lontana dai cittadini e dalle loro vite."
Come superare questa reciproca lontananza, secondo Berlinguer? Promuovendo il sapere:
"Ecco, credo che il Pd ancora non abbia fatta propria l’idea che la società della conoscenza è quella dove tutti imparano, tutti devono sapere di più. Siamo consapevoli che per questo occorre una scuola completamente nuova? Non credo. Noi non stiamo cercando una nuova scuola."
Anche Luigi Berlinguer si augura dunque un rinnovamento culturale che, dal suo punto di vista, dev’essere incentrato sulla scuola pubblica, ma più in generale rimanda ad una società più aperta proprio sulla base della circolazione del sapere:
"Se parlo della scuola è perché essa è centrale in una società fondata sulla conoscenza."

giovedì 8 aprile 2010

Capire l'Italia per cambiare

Già sotto Pasqua e Pasquetta, complici condizioni meteorologiche avverse, è iniziata la discussione da parte degli sconfitti alle elezioni regionali. I vincitori si sono invece incontrati da poco ad Arcore per la spartizione del bottino, ovvero la giustizia a me, le riforme a te, e così via.

In particolare, c’è un accumularsi di pareri, di diagnosi al letto del malato, il partito democratico, che costituisce il grosso dell’opposizione; si discute di come riconquistare i voti perduti ma anche della fisionomia, del carattere che questo partito giovane per nascita ma vecchio in molte componenti ancora non riesce ad avere. Ma questi due aspetti non possono essere separati, non si possono ricercare consensi, occhieggiando quello che hanno fatto i leghisti al Nord e in Emilia – quasi andare casa per casa, fare comizi anche a tre persone – o riaprendo le sezioni, se non ci sono idee ben chiare sulla diversità del messaggio politico da propagandare; non è solo che dobbiamo cercare di convincere il vicino, non è solo questione di propaganda.

Ma nell’Italia di oggi un progetto politico da opporre al berlusconismo non può che essere soprattutto un progetto culturale; nonostante il colpo inferto alla pubblica istruzione con i tagli della riforma Gelmini, l’istruzione e la cultura sono i punti nevralgici su cui occorre far leva.
Si dirà: ma i bisogni dei cittadini, degli strati sociali che più stanno pagando la crisi economica, precari, disoccupati e cassintegrati, le famiglie che non sono tutelate e le storture, le inadeguatezze e le disuguaglianze sociali che ci portiamo dietro dalla prima repubblica. Sono senz’altro obbiettivi concreti, ma non basta. Occorre contrapporre all’Italia berlusconiana e delle televisioni una rinascita culturale, che si basi sulla conoscenza storica, lo sviluppo dello spirito critico, la cognizione dei valori e dei beni culturali che costituiscono il patrimonio storico-artistico della Nazione.


Insieme naturalmente ai valori universali dell’uguaglianza e della fratellanza, della democrazia e del rispetto delle regole. Perché il rinnovamento possa realizzarsi ed essere influente dev’essere il più ampio possibile. A che ci servono le élites culturali che si riuniscono in piccoli gruppi solitari? Del resto ormai gli intellettuali sono scomparsi dalla politica, esuli e raminghi i sopravvissuti. Uno dei maggiori difetti degli intellettuali italiani, rispetto agli altri paesi europei, è stato proprio di restare separati dal popolo e dalla cultura popolare e questo può contribuire a spiegare perché poi la gente può cadere facilmente vittima di politiche illusioniste come il berlusconismo e il leghismo.
Ci serve dunque un rinnovamento culturale generale, che circoli per la nazione: non ci bastano, anche se ci servono i leaders e i quadri dirigenti preparati, vogliamo essere popolo - o come si dice oggi società civile - preparato, senza che vi sia tra i due poli antagonismo.Questa la via maestra per recuperare voti. Questa una delle sfide principali che si pone oggi al partito democratico, più in generale allo sviluppo, proprio mentre affrontiamo una crisi, della democrazia in Italia. Accogliendo questo punto di vista allora s’intravede la soluzione anche ad altri quesiti, come quello sulle alleanze e l’incontro con il popolo di Grillo, che in passato aveva già offerto i suoi voti.

4 (1: Capire l'Italia; 2: Capire l'Italia a L'Aquila; 3: L'Italia decentrata)

domenica 28 marzo 2010

Daniele Luttazzi: quando c'è un blocco ideologico alla comunicazione

Naturalmente non è solo una questione di educazione, di bon ton, ma qualcosa di molto più profondo: l’esclusione della volgarità, che impedisce la comunicazione.
Ancora molto dibattuto l’intervento di Daniele Luttazzi a raiperunanotte, apprezzato da molti che si sono pure divertiti e hanno riso, incomprensibile per altri che per l'appunto non hanno riso. E siccome la risata è una di quelle cose genuine che non s’inventa e richiede la partecipazione del corpo e dello spirito, è stata come uno spartiacque tra due categorie di persone e chi critica l’intervento di Daniele perciò sente – o fa mostra di sentire - di aver perso qualcosa anche se non capisce cosa.
Costoro – quelli che non hanno riso – hanno escluso la volgarità. Anche loro non possono non compiere nella loro vita atti volgari, come cacare – fare le feci - quasi tutti i giorni, ruttare a volte, mettersi, per sbaglio, le dita nel naso, forse in queste volgari occasioni dissociandosi, il corpo da una parte e lo spirito dall’altra. A letto poi chissà quante porcate, magari molte di più di quante verrebbero in mente alle persone volgari. Ma tutto ciò è secretato. Non se ne parla o se sì solo in contesti molto riservati, giammai proprio giammai alle platee. Ecco sì costoro applicano una censura.
La loro esclusione della volgarità è diventata un blocco ideologico – pensano di far parte di una élite… - e di fatto un blocco nella comunicazione: se un messaggio è trasmesso attraverso la volgarità non lo accettano anzi, ancor più profondamente, per loro è diventato incomprensibile.
Per questo apprezziamo Daniele Luttazzi che usa la volgarità come satira contro questo potere, chè sostanzialmente volgare, e come martello ideologico.

giovedì 25 marzo 2010

raiperunanotte


Siamo per la libertà d’espressione: che le opinioni contrarie, il dissenso e la satira possano continuare ad alimentare il nostro spirito critico e salvarci dall’idiozia.

Una pagina di storia americana: la riforma sanitaria approvata

La prima formulazione della riforma sanitaria, firmata da Barack Obama il 23 marzo 2010, si deve a Theodore Roosevelt, presidente dal 1901 al 1909, durante la campagna elettorale del 1912. E non è un caso. Negli anni Novanta dell ‘800 ci fu un momento di crisi economica dovuta, come oggi, ad un capitalismo finanziario sregolato che, come pure ai nostri giorni, faceva sì che alcuni ricchi e potenti aumentassero le loro ricchezze a danno dei rimanenti. Gli storici annotano che l’America, pur nell’imperfezione della sua democrazia, seppe allora reagire imponendosi nuove regole che tutelavano l’insieme dei cittadini, contro i monopoli, a protezione dei consumatori nei confronti degli alimenti e dei farmaci adulterati. In particolare fu dato il voto alle donne; invece la riforma sanitaria, che avrebbe dovuto garantire la copertura sanitaria di tutti i cittadini, non riuscì a passare. Oggi sappiamo che ci sarebbe voluto giusto un altro secolo.
E nella specularità con la situazione attuale, in cui il Paese si trova alle prese con una crisi economica gravissima, tanto da portare all’elezione del primo Presidente d’origine africana, che ha alzato la bandiera del cambiamento e vuole prioritariamente il rispetto delle regole della democrazia e l’introduzione di nuove, come appunto la riforma sanitaria, per la tutela di tutti i cittadini, c’è già una prima grande lezione che ci viene da questa pagina di storia americana, una lezione che evidentemente si ripete: proprio nei momenti di crisi il sistema americano trova le risorse per correggersi e migliorare.
Quello che anche noi dovremmo riuscire a fare, per uscire da una stagnazione storica dove mali perenni si aggravano e non si cerca di rimuoverli.
Certo anche la democrazia americana resta imperfetta e lo dimostra il fatto che con la riforma sanitaria che Obama è riuscito a strappare al Congresso le condizioni d’assistenza dei cittadini americani non sono ancora paragonabili a quelle degli europei. Mostra però d’essere vitale e di possedere grandi risorse.

D’altra parte ci sono ragioni storiche e una diversa mentalità che spiega il diverso stato della sanità negli Stati Uniti e in Europa. La maggior parte dei coloni che vi sbarcarono era protestante e un certo buon numero dovette essere d’ispirazione calvinista, con quell’idea del successo, espressione del nostro destino, che è un tema fondamentale del pensiero collettivo americano. In questa visione dell’esistenza rientra molto probabilmente anche la salute. Noi europei abbiamo invece maturato la concezione che la salute dei cittadini è un diritto e, mi sembra di poter dire, è un bene non solo individuale ma un bene comune, dello Stato come organismo; dunque la sanità è pubblica. E’ il figlio di Ted Kennedy, che volle fortemente questa riforma, Patrick, a dire dopo la vittoria che la salute è un diritto civile, è un diritto umano fondamentale, una sfida etica per la società americana. Lo dice per quegli americani cui invece fino a ieri, dal loro punto di vista estremamente individualista, era fin qui perfino sfuggito il significato economico-sociale delle malattie, ed il fatto che i malati portatori delle malattie di rilevanza sociale se lasciati a loro stessi finiscono per costare allo Stato molto di più che se possono curarsi prontamente, come faceva osservare il Presidente Obama nell’esporre le cifre della riforma.

Con la riforma la sanità americana continua ad essere finanziata dalle assicurazioni ma con tutta una serie di nuove regole. Ci saranno polizze obbligatorie per chi prima restava fuori dall’assistenza, circa trentaduemilioni di cittadini non così poveri da poter usufruire dell’assistenza diretta gratuita in caso di necessità ma nemmeno in grado di sottoscrivere una polizza, che entreranno in vigore dal 2014 perché lo Stato che vi contribuisce deve trovare i fondi necessari con nuove tasse; nel frattempo i malati potranno accedere ad un programma assicurativo provvisorio. Le compagnie assicurative non potranno più rifiutarsi di assicurare o liberarsi di un assicurato che si ammala gravemente, né stabilire un limite alle spese per un singolo paziente, come spesso erano solite fare. Restano per ora fuori dalla riforma gli immigrati non regolarizzati, l'assistenza nei casi di aborto volontario.

Nel firmare la nuova legge Barack Obama ha ricordato sua madre « che ha dovuto lottare con le compagnie assicurative persino mentre combatteva contro il cancro nei suoi ultimi giorni di vita». Nel suo provenire dalla middle class americana, per parte di madre, rispetto ai Kennedy o ai Clinton, sta forse oggi la forza di Obama. E’ la classe media nel centro della crisi e Barack conosce molto bene dove nascono i suoi problemi e nello stesso tempo è molto preparato per affrontarli; sa trovare il compromesso per raccogliere il risultato.
Ma la portata di questa riforma è ancora maggiore. E’ un esempio per il consesso delle Nazioni, come sempre quando la risposta alle crisi è nella direzione della solidarietà, di un reale progresso nel miglioramento delle condizioni umane. Buon lavoro Presidente!

giovedì 18 marzo 2010

La teoria del complotto

La lotta tra il bene e il male è l’esempio più assoluto e assolutizzante, metafisico e apocalittico di una polarità attraverso la cui lente interpretare la storia umana, ancor più la politica. Una lente che attualmente piace molto a chi ci sta governando. Che implica di parlare delle forze del male e disegnare una teoria del complotto per la quale le suddette forze del male si organizzano a danno degli innocenti. Nella storia passata e fin dagli albori, per la verità le accuse di complotto sono sempre state attribuite a gruppi marginali della società - in particolare ebrei, eretici e streghe dal Medioevo fino al ’700, e ancora gli ebrei nella storia più recente del secolo appena trascorso, sotto il nazismo - chiamati a fare da capro espiatorio in periodi di crisi, quali pestilenze, carestie e sconfitte in guerra; oggetto del complotto l’insieme della società. Oggi, nella particolarità italiana, la vittima designata del complotto sarebbe addirittura il governo, cioè il potere esecutivo, e tra i cospiratori, i membri del potere giudiziario. La crisi politica italiana dunque genera un’anomala teoria del complotto. Dietro quest’ultima, c’è in realtà un contrasto sempre più marcato tra i poteri dello Stato, stabiliti dalla Costituzione.
Anche dentro la nostra Costituzione ci sono delle polarità: poteri che si bilanciano, creati apposta perché uno non debba soperchiare sugli altri ma all’opposto ognuno controlli ed equilibri l’altro. Così i Padri costituenti, nel momento della ricostruzione, dopo che il Paese era passato attraverso la dittatura e una nostra guerra civile dentro il conflitto mondiale, hanno creato il congegno pressochè perfetto di una moderna democrazia parlamentare. Perfetto in specie dal punto di vista della sua tutela basata per l'appunto sul bilanciamento dei poteri. Ecco perché i poteri possono anche discutere tra loro ma il contenzioso deve comunque ricomporsi, e ognuno deve essere libero di agire nelle sue competenze, mentre nessuno può prevalere su l’altro, per il bene della democrazia, cioè dello Stato, dell’insieme di tutti i cittadini.
Proprio l’equilibrio dei poteri com’è stabilito nella Costituzione s’oppone perciò alla teoria di oggi del complotto. Ma ci sono altre polarità che nei secoli, e ormai nei millenni, s’alimentano nella Penisola. Il nostro Paese culla di genti diverse che mantenevano la loro identità è stato perciò la terra del particulare, dell’individualismo. L’interesse particolare si è così trovato in molte occasioni ad opporsi fortemente a quello comune. Forse per questo i romani compresero così bene il senso dello Stato, di quella res pubblica che occorreva mettere davanti agli interessi del singolo se si voleva che Roma esistesse: sapevano troppo bene quanto pendessimo dalla parte opposta. La storia romana e quella seguente può essere vista come un dibattersi tra questi due poli, una lotta in cui troppe volte ha vinto il particolare.

Un’altra opposizione che ritroviamo dentro la storia romana ma che doveva riproporsi più volte in momenti critici è quella sottesa al contrasto tra Senato e Imperatore. Il Senato a rappresentare l’alleanza, il patto sociale tra le classi dei cittadini e le regole da rispettare e l’Imperatore, quando decideva d’opporsi od ignorare il Senato e le regole, a basarsi sul favore diretto del popolo.

La democrazia moderna è anzitutto la democrazia delle regole perché sono le regole che garantiscono l’uguaglianza dei cittadini e non c’è altro modo. Chi pensa di sottrarsi alle regole comuni perché ha il favore - : la maggioranza dei voti – del popolo scivola verso l’imperator.

mercoledì 3 marzo 2010

L'Italia decentrata

Capire l'Italia. L’abbandono dei centri storici, del resto, è un processo da lungo tempo in corso anche senza terremoto: nel modo più banale, nei piccoli centri, ad esempio, è accaduto e continua ad accadere che la costruzione di nuove abitazioni, palazzine e villette a schiera, muova i residenti a vendere quei terreni che un tempo avevano dedicato all’agricoltura, e, inneggiando al progresso edilizio, comprarsi la loro quota di cemento. I paesi si spostano così fuori, oltre le porte e le mura, qualche volta rimaste fedelmente in piedi, ma per chi? Per nessuno. Non si accorgono i residenti, ora nelle nuove e certo più comode case, di essere anche loro un popolo migrato, che con il vecchio centro dimenticato hanno smarrito anche l’ identità e l’anima. Non s’accorgono d’aver perso il nesso fondamentale tra struttura urbana, socialità e vita civile, nei nuovi conglomerati di case dove non ci sono più punti di riferimento come erano le piazze e i monumenti dell’antico abitato, che avevano perciò la funzione di riunire e dare significato. Si sta ognuno nelle proprie case, anonimi e isolati.
Tutto al più dentro le case si diventa popolo televisivo, uniti dalle televisioni, soggetti passivi della partecipazione. E’ questa l’Italia decentrata! Proprio l’opposto di quel che sembrava dovesse avverarsi, non l’Italia delle regioni e dei comuni ma un popolo tutto uguale e amorfo. Qui sta l’ipocrisia leghista. E anche l’equivoco perché la forza dell’Italia sta sì nelle sue molte tradizioni ma non da opporre l’una alle altre: l’identità comune passa attraverso quelle particolari - e invece queste si vanno perdendo - ma come cittadini, muovendo da queste, dobbiamo arrivare a riconoscere i valori comuni della Nazione.Un altro aspetto importante che deriva dall’Italia decentrata è che si va perdendo la nozione di ambiente esterno. Tendiamo ad essere consapevoli solo dell’ambiente che ci circonda: la casa, il luogo di lavoro, l’agglomerato urbano che si estende intorno a noi. Se passeggiassimo facendo visita agli antichi borghi dimenticati forse potremmo accorgerci, come sicuramente accadeva ai nostri antenati, che nel borgo si entra per una porta e poi si esce per un’altra, e così è ben delineato ciò che è dentro e ciò che è fuori: la città, lo spazio prettamente umano, e la campagna, cioè la natura, di cui una parte ancora governata dall’uomo e una parte ancora – dove? vai a trovarla oggi- lasciata libera, quel paesaggio che non guardiamo più e potrebbe dirci tante cose.

3(continua)

mercoledì 24 febbraio 2010

Capire l'Italia, a L'Aquila

Piccola Dorrit dal Gran Sasso

Fu nel periodo protostorico, dalla fine del XIII alla prima metà dell’VIII secolo a.C., che le varie popolazioni presenti sulla Penisola, alcune autoctone, la maggior parte di ceppo indoeuropeo, quali Umbri, Latini, Sabini, Volsci, Equi, Sanniti etc, si vennero stabilizzando passando ad un’economia basata sull’agricoltura piuttosto che sulla pastorizia. La geografia, come abbiamo visto, fece sì che dentro lo stivale ognuno avesse la sua nicchia isolata. Si costruirono villaggi di capanne ed iniziò così il cammino verso l’urbanizzazione, contrassegnato dalla produzione delle ceramiche ed oggetti in bronzo.
Tra queste genti italiche i Piceni occuparono le Marche e l’Abruzzo settentrionale. Certamente i Piceni furono organizzati militarmente: essi ebbero una parte importante nelle guerre puniche, pur umiliati dai cartaginesi dopo la battaglia del Trasimeno, combatterono con i romani a Canne; lottarono contro Roma nella Lega italica per ottenere la cittadinanza romana. Ma molto prima che questi fatti accadessero i Piceni ci consegnarono, nel VI secolo, una delle maggiori espressioni dell’arte delle genti italiche qual è la statua del guerriero che proviene da Capestrano, vicino L’Aquila.


Il guerriero è più che a grandezza naturale, è monumentale, probabile statua funeraria. Siccome due sostegni di marmo lo puntellano sotto le ascelle esso rappresenta il defunto tenuto in piedi perché ancora faccia vanto di sé ed intimorisca. In questo restare in piedi c’è una sfida alla morte e alla corruzione, la ricerca di una conferma della dignità umana. Sono valori entrati a far parte della cultura e della civiltà romana, alle radici di quell’umanesimo che, anche se più volte tradito, ancora ci appartiene.


Oggi la gente dell’Aquila si trova in un momento difficile. Colpita dal terremoto, il suo centro storico è ancora coperto di macerie. Forse non si è capito cosa vuol dire il centro storico per un’antica città. E’ la civiltà e la vita civile cittadina, la memoria, l’identità e la dignità. E' il guerriero che resta in piedi per sempre perché non sia dimenticato.
E infatti abbiamo visto gli aquilani aprire le transenne, invadere in processione il loro centro sottratto, appendere le chiavi delle loro case. Così sappiamo che di fronte alle ruberie e allo speculare sulle disgrazie, al delinearsi di un sistema di potere, c’è un popolo forte e fiero della sua storia e della sua tradizione, che ama la sua città ed è motivo di speranza.












2(continua)

martedì 23 febbraio 2010

Capire l'Italia


Piccola Dorrit dal Gran Sasso

Capire l’Italia. E come potremmo senza la geografia, senza guardare la carta della nostra penisola. In particolare in una versione che la disegna dall’Europa all’Africa, cogliendola così nel suo protendersi nel Mediterraneo.
E la storia della sua formazione geologica rafforza l’immagine. Una grande collisione tra Europa e Africa all’incirca all’inizio del Cretaceo superiore, dai cento ai cinquanta milioni d’anni fa, ha prodotto nel tempo la formazione delle catene montuose che fanno l’ossatura dell’Italia, le Alpi e gli Appennini, le prime grosso modo la componente europea, i secondi quella africana. Le rocce del fondo oceanico, compresse, accavallate e sollevate a seguito del’urto, emersero in tempi diversi. Cominciarono gli isolotti che avrebbero formato l’Appennino meridionale, poi le Alpi mentre fu più a lungo sommersa quella che diventerà la pianura padana. Le cose furono molto complicate perché inizialmente gli Appennini si formarono tra le Alpi e la Spagna meridionale. Ci fu una rotazione che diede loro la posizione attuale e si formò il mar Tirreno, alla fine del Cretaceo, circa cinque milioni di anni fa, Urto di continenti, sollevazione del fondo marino, rotazioni e formazioni di mari stanno dunque all’origine della nostra terra eccezionale, veramente trait d'union tra Nord e Sud, tra Europa e Africa nel Mediterraneo. Quale del resto appare inequivocabilmente a guardare la carta.

Dalla catena delle Alpi che ci protegge dai venti freddi del Nord, e pure ha protetto i nostri confini perché difficile da attraversare; dalle valli alpine alla grande pianura del Po, il fiume che raccoglie con i suoi affluenti le acque che discendono da quelle montagne, che l’hanno così accresciuta con i loro detriti, scendendo giù fino alla Sicilia passando per la montuosità continua dello stivale dove l’Appennino intanto la divide in due tra est e ovest: queste montagne e con esse le loro valli, i fiumi, i passi e le cime, sono i luoghi primari e i motivi per cui le antiche genti italiche hanno potuto insediarsi e restare separate mantenendo le proprie identità - più o meno riportabili alle regioni attuali - trovare di che prosperare ma anche comunicare; in essi sta la ragione primaria della diversità italiana, del suo essere tanti popoli e uno solo.
Così già la geografia ci spiega il “destino” dell’Italia: la sua conformazione ci fornisce la prima comprensione della sua storia interna, cioè della dinamica delle sue popolazioni originarie e delle culture e civiltà che queste hanno saputo sviluppare, distinte e pure interagenti tra loro; la posizione nel Mediterraneo ci dà conto degli influssi esterni fondamentali degli altri popoli mediterranei, imprescindibili per comprendere l’importanza e la grandezza della storia umana che la nostra terra ha saputo interpretare da protagonista e dal Mediterraneo volgerne i valori all’Europa.

1 (continua)

giovedì 11 febbraio 2010

L'evoluzione della Protezione civile

Due articoli, di Sergio Romano come editoriale sul Corriere e di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica, sostanzialmente, di là del tono e della disposizione personale molto diversi, concordano nell’analisi della svolta politica rappresentata nel governo Berlusconi dall’ampliamento delle competenze della cosiddetta Protezione civile. Ne avevamo sentito parlare nei giorni precedenti, che Bertolaso doveva diventare ministro, ma di che ci domandavamo, promozione che il premier andava preparando ricoprendolo di elogi.
La Protezione civile, allargata a dismisura nelle sue competenze, dovrebbe diventare il braccio operativo del capo del governo saltando tutti gli “impedimenti” burocratici e non, che da sempre a suo dire gl’impediscono di governare. Dice Sergio Romano:
"Il metodo presenta almeno due inconvenienti. Si perde di vista, in questo modo, il disegno organico che dovrebbe ispirare la riforma dello Stato. E si aprono zone grigie in cui il pericolo dell’illegalità diventa maggiore."

Dice Giuseppe D’Avanzo:
"Bertolaso interpreta il paradigma della "militarizzazione della decisione politica" che il premier immagina debba essere lo strumento d'uso quotidiano del governo, il dispositivo che consente di sospendere le norme, di trasformare il diritto in una decisione che va liberata dal perimetro in cui la costringe la legge. La Protezione civile di Guido Bertolaso ha rappresentato e rappresenta appunto questo: il sostanziale svuotamento della partecipazione politica a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica."

La deregolamentazione in economia, deregulation, così come l’esaltazione a senso unico del libero mercato, quale migliore dei mondi possibili, hanno fortemente contribuito alla grave crisi economica attuale, avendo lasciando, riducendo i controlli, mano libera alle attività illegali e criminali; in politica essa uccide la politica stessa e la democrazia che si fonda sul rispetto delle regole e dei procedimenti di controllo che sono stati apposta preposti alla tutela dei cittadini e della legalità.

sabato 6 febbraio 2010

La libertà delle donne

Un altro romanzo, dopo i tre pubblicati a formare la trilogia del Millennium, e forse un quarto lasciato inedito, si va componendo questa volta nelle pagine di cronaca, ma sempre nei medesimi luoghi di Stoccolma. Hanno cominciato i suoi colleghi giornalisti a dire che Stieg Larsson non sapeva scrivere, che i suoi articoli andavano riveduti e corretti e a buttare là l’ipotesi che il Millennium sia per lo meno una fatica a quattro mani, le altre due essendo quelle della sua compagna Eva Gabrielsson. Il caso però è reso più complicato da un rilevante aspetto economico sociale: Stieg è scomparso improvvisamente prima del successo di pubblico della trilogia e siccome non era sposato, pur dopo una convivenza di oltre trent’anni con Eva per la legge svedese – in questo uguale come da noi - ad ereditare, compresi i diritti sull’opera, sono stati soltanto il padre e il fratello. Ci sono gli avvocati delle due parti che stanno lavorando ad un accordo di compromesso.Non ho ancora letto Uomini che odiano le donne e i due romanzi successivi ma l’ulteriore vicenda umana raccontata dai giornali mi ha fatto pensare a Film blu di Kieslowski.
Anche il regista polacco ha composto una trilogia che, ispirata ai valori dichiarati dalla rivoluzione francese, richiama nei titoli il tricolore: il blu per la libertà, il bianco per l’uguaglianza e il rosso per la fratellanza. In Film blu, dunque dedicato alla libertà, la storia esemplare è quella di una donna che avendo perso in un incidente, che l’ha vista unica superstite, il marito e la figlia, non riesce inizialmente a reagire e a tornare alla vita.
Eva Gabrielsson racconta in un’intervista che alla morte improvvisa del compagno - non hanno avuto figli – ha attraversato uno stato di grande abbattimento: non riuscivo a mangiare e, per dormire almeno qualche ora, mi sdraiavo per terra. Come un animale. Gli amici non se la sentivano di lasciarmi mai sola. Ci sono voluti 12 mesi per riprendermi.
Di Julie/Juliette Binoche andiamo lentamente scoprendo nel film che dietro il marito, affermato compositore, c’era in realtà la sua creatività. Così una parte di lei le era sembrato andarsene con lui, e ciò può essere all’origine del suo annientamento profondo. Il suo percorso di rinascita passa perciò attraverso il palesare e far accettare prima di tutto a se stessa e quindi al mondo questa verità nascosta; passa in ultima analisi attraverso la conquista della libertà, di disporre in prima persona del proprio valore!
La compagna di Stieg Larsson ammette di averlo aiutato in diversi modi, ma nega che non sia lui l’autore dei romanzi. E’ architetto e dice in particolare: Il mio apporto maggiore è stato dargli il mio studio sullo sviluppo urbanistico di Stoccolma (mi aveva impegnata per più di un anno). “Posso averlo per il mio libro?”. “Certo, è finito”: così Stieg l’ha incorporato in varie parti della trilogia. Ho collaborato anche ad altre ricerche sulla politica, sui gruppi neonazisti, però il grosso delle informazioni l’avevamo raccolto durante tutta la vita.
Ho chiesto ad un’amica che ha letto la trilogia, e tempo fa me l’aveva consigliata, cosa ne pensasse: Si sente una mano femminile? Mi ha risposto di sì, che l’argomento della violenza sulle donne che infine trova la giusta vendetta le sembra sia proprio dalla parte delle donne. E’ proprio con questa motivazione che la Gabrielsson ha ricevuto l’anno scorso a Madrid un premio a Stieg Larsson, assegnatogli dal Consiglio superiore del potere giudiziario, il Csm spagnolo, per il suo importante impegno contro la violenza verso le donne.
Quanto Eva ha in realtà collaborato alla trilogia ed è oggi doppiamente beffata dalla legge che le nega ogni diritto sull’opera? Ancora una volta sono le donne a subire maggiormente le conseguenze negative delle convivenze di fatto.
Ci sono state molte donne nella storia del mondo che sono state personalità creatrici che però hanno dovuto restare dietro agli uomini, consigliere e collaboratrici nell’ombra, perchè la società, i costumi e la morale ne hanno limitato la libertà d’espressione.

mercoledì 3 febbraio 2010

Il piacere del ricordare

Il tempo passa e scorre in un’unica direzione ma l’avvicendarsi delle stagioni e il nostro modo di misurarlo in giorni, settimane, mesi ed anni, basandoci sul movimento dei corpi celesti, introduce una ciclicità, un ritornare, che facilita il nostro ricordare, ad esempio cosa facevamo l’altra settimana a quest’ora, oppure le abitudini del lunedì, o al cambio di stagione: ti ricordi di quell’estate che? Essendo la ciclicità insita nella natura in qualche modo ciò vuol dire che siamo, già per il fatto di stare sul pianeta terra che gira intorno al sole, predisposti a ricordare. La ciclicità degli eventi naturali può aver favorito dal punto di vista biologico lo sviluppo dell’individuo e della coscienza per la quale la memoria è fondamentale. La ciclicità della natura ci ha pure aiutato ad imparare perché non apprendiamo una lezione se prima non facciamo lo sforzo di ripeterla.
Di tutte le stagioni l’inverno è la più propensa al ricordare. Nelle lunghe giornate fredde, nei momenti di noia o di solitudine a volte troviamo un aiuto insperato nel ricordare, un’onda avvolgente proveniente dai mari lontani della nostra vita. Sfugge alla nostra analisi perché proprio quei ricordi e non altri, ma è certo che sono giusti per darci piacere, dilatare lo spazio angusto del momento presente.
Invece secondo Manzoni l’onda dei ricordi che s’abbatteva sul capo di Napoleone, sconfitto per sempre e solo a S. Elena, era un’onda disgraziata, uno strazio il ripensare le mobili tende, e i percossi valli, e il lampo dei manipoli, e l’onda dei cavalli, e il concitato imperio e il celere ubbidir. Chissà se veramente l’ex imperatore si torturava così, riandando alle glorie perdute o se invece non era una consolazione per il soldato ripensarsi nei giorni belli, magari soccorso anche da ricordi di cose più semplici e d’intimità familiare.
Così Giosuè Carducci nel suo Sogno d’estate, immerso nella lettura delle battaglie omeriche lasciandosi vincere dal sonno trovava il modo, in un sogno molto vicino al ricordo, di opporre al clamore delle armi la visione, con la pietà che gli muovevano, di affetti familiari.

sabato 30 gennaio 2010

Termini Imerese e il gioco delle parti (Reprise)


Il gioco delle parti è ripreso con vigore.
La maggior parte dei commentatori dà per scontato che, di tutti gli stabilimenti Fiat, quello di Termini Imerese non abbia proprio futuro. Dunque non c’è e non ci sarà nemmeno più un futuro industriale per la Sicilia. Ci vorrebbe un’altra classe politica che facesse mea culpa per quel che non ha fatto nei quarant'anni di vita di questo stabilimento - dall'altra parte dell'oceano c'è chi lo fa - e prendesse impegni credibili, quando invece nell'oggi sa solo tagliare su tutto, dalla scuola agli incentivi.
In questa messinscena è troppo facile prendersela solo con l’azienda e il suo amministratore, lasciando nell’ombra le responsabilità degli altri attori della compagnia.


(post precedente sull'argomento: Termini Imerese e il gioco delle parti)

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