giovedì 29 novembre 2007

Paisà. I conti che non tornano in tasca agli italiani.


“ Basta che ce sta o sole, basta che ce sta o mare…”: una volta, forse, quando tutti eravamo più poveri, i poveri erano la maggioranza, il cielo e il mare senz’altro meno inquinati. Oggi i ricchi sono tanti e diventano sempre più ricchi, e i poveri, ahinoi, ridotti qualche volta a minoranza ma che, non tutelata, diventa sempre più povera, e quindi senza sbocco, in un paesaggio urbano di periferia e, nelle campagne, in antichi borghi divenuti una periferia omologata.
Certo il villaggio globale, ma da noi è in atto ormai da circa trent’anni, da Tangentopoli in poi, un processo in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Non c’è governo che riesca ad invertire questo trend così iniquo. Anche il governo di sinistra che vuole risanare pensa prima alle casse dello Stato, che in verità in questo ha seguito le sorti dei suoi cittadini più poveri, e prende delle misure che, per le condizioni fiscali diciamo così particolari del nostro Paese, finiscono per gravare sempre sulle stesse groppe, e non c’è mai, proprio mai, margine per una più equa redistribuzione del reddito.
I “bonus” che la sinistra cosiddetta radicale vorrebbe strappare all’intransigente tesoriere Padoa Schioppa, questi tesoretti, misure di cento euro ai più bisognosi, servono solo a far la finta, come un aroma d’equità, al posto della sostanza, come quando c’erano il surrogato del caffè e del cioccolato, al posto di quelli veri. Ancor peggio le elargizioni a pioggia, tipo “Leviamo a tutti l’Ici sulla prima casa.”, dove l’equità è quella fasulla perché senza proporzione, in quanto sgravando allo stesso modo ricchi e poveri si finisce per favorire in proporzione i ricchi. Anche per i ricchi occorre difendere il diritto alla casa?
Il nostro Paese è tra i primi in Europa per avere i lavoratori dipendenti con gli stipendi più…bassi. Il potere d’acquisto di questi stipendi è diminuito nel giro di cinque anni di 1900 euro. Sono gli ultimi dati e parlano con una chiarezza che non ha bisogno di commenti. Intanto si registra l’ultimissimo aumento dei prezzi dei generi alimentari. E se qualcuno dice che quanto si spende per mangiare è il minimo delle uscite, è chiaro che è ricco e comunque è un cretino. Anche l’esercizio di calcolare il risparmio dell'italiano medio, che “Il Sole 24 ore” ha attestato sui dodicimila euro nel conto corrente, questo basarsi su valori medi, non chiarisce lo stato reale delle cose quando gli estremi dei guadagni percepiti vanno dagli imprenditori che guadagnano al mese… , gli stipendi di grandi manager e dirigenti che guadagnano al mese…, i parlamentari…, ai pensionati con una pensione al di sotto dei seicento euro mensili.
Potremmo essere arrabbiati, indignati, disperati e infine indifferenti se non fosse per i nostri figli. In un paese dalle molte caste – inutile citare i dati per cui siamo ancora tra i primi in Europa per stagnazione sociale - è comunque difficile trovare il posto per chi provenga da famiglie normali, figuriamoci quando la crescita è in eclissi e notai, avvocati, professori universitari, medici, giornalisti ecc. ecc. ecc. hanno già sistemato anche i nipotini. E poi si discute sul merito nei talk show della politica in televisione.

Giovanni Fattori. impressioni di una mostra.



Fontana di Trevi è ormai l’ombellico del mondo, ma poco più in là in Via della Stamperia, quando la folla comincia a diradarsi, è stato possibile, per il tempo della mostra, entrare nel paesaggio sommesso in bianco e nero, fatto di stampe e disegni, di Giovanni Fattori.
Ci si è presentata un’Italia ottocentesca, lontano dai salotti, i balli e le cene, contadina e risorgimentale, che troppo si è offuscata nei nostri ricordi. Un’occasione quindi per rafforzare quel percorso d’identità che noi italiani siamo in perpetuo condannati a ritrovare.
Il paesaggio, i fienili, i muri degli orti, i ponticelli sui torrenti, ormai perduti od obsoleti, uomini e animali spesso ritratti nei momenti di abbandono, di sosta, quando meglio il corpo esprime i sentimenti dell’anima. I soldati delle guerre d’indipendenza ritratti non solo nella mischia della battaglia, ma negli istanti più semplici e privati della vita quotidiana.
Per questo il taglio è molto spesso fotografico, ci richiama il cinema della cinepresa per la strada, col suo soffermarsi sui particolari più umili, come gli zoccoli dei cavalli, il suo riprendere la scena alle spalle. Per questo è importantissimo il taccuino dei disegni, esposto per la prima volta, e sfogliabile virtualmente sullo schermo del computer, per riconoscere questa grammatica espressiva.
Meglio di ogni altra parola, quelle dallo stesso Fattori rivolte in una lettera ad alcuni scolari nei primi mesi del 1898, riportate in un pannello dell’ultima sala della mostra:

“Io amo il realismo e ve l’ho fatto amare – le manifestazioni dela natura sono immense, sono grandi, non sempre si presenta di viva luce, non sempre si presenta triste e buia – gli uomini, gli animali, le piante hanno una forma, un linguaggio, un sentimento. Hanno dei dolori, della gioia da esprimere”.

Questo umanesimo della vita semplice, del quotidiano, quest’armonia della natura, nella quale i viventi tutti, uomini, piante e animali, e il paesaggio intorno, possono in un certo senso accordarsi tra loro, comunicare.
La mostra a cura di Fabio Fiorani.

mercoledì 21 novembre 2007

La scoperta del lupercale e il simbolo del partito democratico



Le notizie si rincorrono producendo effetti curiosi.
Ieri la scoperta del lupercale nella pancia del Palatino sopra il Velabro. La leggenda, scioccamente espunta dai libri di scuola, torna con prepotenza alla ribalta, con argilla, mattoni e una splendida decorazione della volta da lasciare a bocca aperta, come accadde a Michelangelo e Raffaello, quando si calarono con le torce nei buchi della domus aurea.

Oggi il partito democratico, il cui loft sta proprio nei pressi del lupercale, con i suoi due fratelli Walter Veltroni e Dario Franceschini, presenta alla stampa il simbolo del partito. Si dice che ci sarà l’ulivo, ma forse in filigrana o ad un occhio esperto, in controluce o magari solo in particolari condizioni di luce o temperatura, sarà possibile vedere sul fondo il profilo della lupa capitolina.
Con buona pace dei settentrionali, specie se leghisti, questo partito sarà romano. Gli auspici parlano chiaro.
E’ un passato troppo grande ed ingombrante, che riemerge dal sottosuolo e, come già fecero gli umanisti del Quattrocento, non si tratta d’imitare ma di gareggiare con gli antichi nel provare ad inventare il futuro.

venerdì 16 novembre 2007

Novembre

Le foglie rotolavano, s’alzavano nel vento e ricadevano giù: nell’atrio del vecchio albergo con la valigia a terra, a salutare e a guardare fuori pensando che stavamo per unirci a quelle foglie, a rotolar via nel vento e nelle nostre vite separate.

Ritrovo l’immagine in questa mattina di pioggia gelida che fa dire a Novembre, dopo tanto tepore, l’inverno è qui.
Il gusto dell’autunno, di qualcosa che muore, una messinscena funebre che nelle nostre zone temperate la natura sa orchestrare con grande maestria. Accende di rosso le moribonde sorelle foglie, rossa è la fiamma dei camini, che si risvegliano nelle campagne italiane, dove non ci si può sottrarre al quesito esistenziale: “Lo fai lo foco?”. D’arancio i cachi deliziosi, dolci e succosi come non mai i frutti estivi, e l’uva e le castagne: la natura sa coccolarci prima del commiato invernale.
Anche la nostra anima sembra sentire il bisogno di morire un po’, di accordarsi alla sinfonia in minore della natura. Un po’ di malinconia, un po’ rotolare come le foglie. Perché il vento ci porti in un altro luogo e in un altro tempo, in un’altra vita in fondo.
Perché sarebbe una morte da cui possiamo rinascere. Come il fiume in piena, che una volta non era così temuto. L’aspettavano gli uomini del fiume come cosa buona “che porta via il vecchio e fa nascere il nuovo”.

martedì 13 novembre 2007

Villa Torlonia


Eravamo stati a Villa Torlonia quando, sindaco della città Giulio Carlo Argan, i giardini si erano riaperti al pubblico, tanta gente in un pomeriggio domenicale. Gli edifici no, distanti, transennati e malconci.

Siamo tornati quest’anno, in una mattinata tersa di Settembre. Da poco terminato il restauro del Casino Nobile, subito in vista dall’accesso principale dalla parte di via Nomentana. Le bianche colonne neo-ioniche della facciata e quelle rastremate, neodoriche e neoclassiche di Giuseppe Valadier, che ci rimandano alla Villa Borghese e alla Casina sul Pincio, si stagliano tra il cielo e la vegetazione.


Altri complessi sono stati già restaurati, come la Casina delle Civette, incredibilmente recuperata, a confronto con la documentazione fotografica che, al piano terra del Casino Nobile, rende testimonianza delle vicende trascorse, e del degrado in cui la Villa era caduta. E’ senz’altro una rinascita: ottimo, accurato restauro e pubblica destinazione con gli edifici divenuti aree museali e l’inserimento nella vita del quartiere con il centro anziani e lo spazio per le attività dei ragazzi, affrontati, il primo alle Scuderie Nuove il secondo nel Villino Medievale.
Dalle cronache cittadine abbiamo raccolto critiche e lamentale per lo stato della Villa che si estende oltre la Limonaia e il Campo da tornei, incuria dei giardini e cattivo uso da parte dei visitatori. Ma il restauro prosegue, e riguarda proprio quest’area più abbandonata: stanno per iniziare i lavori per il recupero della Serra e della Torre Moresca, ritenute importanti esempi romani di architetture in ferro e vetro. Si spera, così, che tutta la Villa possa essere recuperata, conservata e rispettata nell’uso dai visitatori. Per mantenersi realmente quella che a noi Villa Torlonia è sembrata in una splendida mattina romana, proprio per la storia, il restauro e la sua pubblica destinazione: un sogno, un’isola.
Se non fosse stato per la mostra di Scipione, in corso al Casino dei Principi, a ricordarci che non fu e non è placida la città che scorre fuori ma intorno a noi. Tentacolare luogo di potere e di cortigiane, e cortigiani. A fare da contrappeso, all’equilibrio e alla leggerezza neoaclassica. Alla costruzione estetica e crepuscolare voluta da un principe ancora committente e servito da un artista come Cambellotti, nella Casina delle Civette. Dalle lumachine di marmo, i battiti d’ali d’uccelli notturni e un girotondo di pipistrelli, immagini che dalla Casina ci rincorrono, al rosso, al magma di Scipione. Un bicchiere di vino forte, una scossa che ci riporta alla carne, all’arte che esprime la sofferenza.
In mezzo una stratificazione nello spazio e nel tempo. Nel sottosuolo le catacombe ebraiche. Sotto il Casino Nobile il bunker voluto dal duce. Al secondo piano sopra le sale dipinte nell’Ottocento ci sorprendono pallide pitture dove si balla e si suona sotto le palme hawaiane: testimonianza non abrasa dell’alloggiamento delle truppe alleate nella Villa. Quindi, il Museo della Scuola Romana. Tra le correnti del Novecento che più si opposero all’arte promossa dal regime il cui capo abitava le stanze sottostanti.
Fuori, l’ansia del traffico fa presto a riprenderci.

venerdì 9 novembre 2007

Il messaggio di Olmi


Un grande, commosso, tributo popolare ha salutato Luciano Pavarotti e ora Enzo Biagi. La gente ha cuore, riconosce i suoi eroi, quelli che con lei non hanno mai perso i contatti.
L’analisi storico-sociale che dall’alto e da tempo si porta avanti, basata sulla contrapposizione tra politica e antipolitica, e che presuppone una massa di gente incolta, irresponsabile e distaccata dai valori, si va mostrando sempre più infondata. Ha cozzato contro un popolo che ha partecipato alle manifestazioni di Beppe Grillo “ma anche” alle primarie del partito democratico. Lo spirito popolare, per fortuna, è ancora vivo in Italia, anzi trova sempre più le occasioni per esprimersi, anche se qualche volta sono tristi come da ultimo la scomparsa di Biagi.
A questo spirito ha guardato, alla gente semplice, ancora una volta, si è richiamato, Ermanno Olmi, nel suo ultimo e discusso film, “I cento chiodi”. Profondamente calato nell’analisi del caso Italia, Olmi è già stato autore de “Il mestiere delle armi” che illustra le vicende che precedettero il sacco di Roma del 1527. Cronaca quella di una Italia in primo luogo divisa, nella quale i signori e i principi italiani col badare, nel pericolo, ciascuno ai propri interessi collaboravano, in questo sì, alla rovina collettiva. Ne “I cento chiodi” l’Italia che incontriamo sul fiume è fatta di persone un po’ fuori dai ritmi della vita moderna, che mantengono dei tratti genuini regionali: proprio per questo è gente che sa raccogliere il messaggio di fratellanza, di scambio d’esperienze, emozioni e sogni. Che la cultura non si trovi che in parte sui libri, ma l’acquistiamo col nostro guardarci attorno, nel nostro rapporto con le cose e con la natura, e soprattutto col saper cogliere nel contatto con gli altri suggerimenti, idee e sentimenti; che ognuno che incontriamo, il nostro prossimo, può dirci qualcosa d’interessante su cui valga la pena di riflettere, come mostra di fare il professore-Gesù con la gente semplice sulla riva del Po: Olmi ci ha fatto ricordare che queste sono cose in cui abbiamo sempre creduto. A quest’idea movimentista della cultura molti professori, e dottori, oracoli della cultura d’elite, oligarchica, hanno reagito stracciandosi le vesti di fronte all’immagine, certo forte ma metaforica, dei libri inchiodati. Quando ad essi non corrisponde più un’esperienza di vita.
La vita nuova del professore di Olmi, invece, da un lato è un’imitazione di Cristo, come nella più genuina religiosità medievale, e nel rifarne il cammino riscopriamo ancora una volta la forza del suo messaggio; dall’altro proprio per la natura di questo messaggio, valido per credenti e non credenti, è un discorso sugli uomini, sulla qualità dei rapporti tra le persone e con la natura, su cui porre, ritrovare, le basi della nostra convivenza, di una società solidale, e dell’armonia con le altre specie e con il pianeta.
Alla chiusura del secolo dei lumi, nel sostenere la figura dello scienziato dilettante, da cui si sentiva rappresentato, e destinata invece a declinare nel corso dell’Ottocento, Goethe, che in verità dette molti contributi a diverse scienze, in particolare all’anatomia comparata e alla morfologia, scriveva a conclusione de “La teoria dei colori”, richiamandosi anche lui all’esperienza, al farsi del sapere: “Le scienze poggiano, molto più che l’arte, sull’esperienza, e nel trattare con questa molti sono abili. Ciò che appartiene alla scienza riceve contributi da più parti, e non si può fare a meno di più mani e di più teste. Il sapere si può trasmettere, i suoi tesori possono venir ereditati e quanto viene acquisito da qualcuno viene fatto proprio da altri. Non vi è dunque chi non possa offrire il suo contributo alle scienze. Di quante cose non siamo debitori al caso, alla pratica, all’attenzione di un istante? Tutte le nature dotate di una sensibilità felice, le donne e i bambini, sono capaci di comunicarci osservazioni vivaci e pertinenti.”.
Un altro modo per descrivere una società aperta, in grado di avvalersi del contributo di ciascuno di noi.

Charles Dickens



Nel comporre l’elenco, esercizio sempre molto in voga, dei maggiori scrittori europei tra Ottocento e Novecento, le cui opere abbiano avuto maggiore influenza fino a noi, se non mancano mai in vetta Proust, Tolstoj e Kafka, spesso ci si dimentica ingiustificatamente di Dickens.
Sempre segnalati, in primo luogo, i difetti di struttura dei suoi primi romanzi, in quanto pubblicati a puntate sui giornali. L’etichetta che fu data, con una connotazione negativa, ai suoi lavori di “romanzo sociale”, contro il quale si esprimevano snobbisticamente diversi colleghi contemporanei e successivi. Forse pesava e pesa tuttora la difficoltà da parte del borghese, specie se ricco, di accettare la satira feroce che Dickens non gli risparmia, lo spirito popolare che Dickens non disconosce.



Eppure, ci ha lasciato creazioni potenti. I suoi luoghi-non-luoghi, a cominciare dalla “bottega dell’antiquario”. Luoghi anzitutto metaforici, botteghe, taverne e altri luoghi particolari, il cui nome spesso è già un piccolo gioiello da assaporare, come la taverna in riva al Tamigi, o meglio il raffinato locale di degustazione, noto come “Sei facchini allegri”, in “Il nostro comune amico”. Come i cumuli di rifiuti, trasformatisi in ricchezza, che fanno lo sfondo di questo romanzo. Da rivedere oggi che la questione dei rifiuti ha un’urgenza planetaria.
I suoi personaggi. Una galleria ricchissima, anch’essa perciò criticata, ancora da studiare, analizzare e catalogare. Come le sue tante piccole donne. Come la piccola Nell. Sarà forse ancora un personaggio-non-personaggio, il centro vuoto del romanzo, ma come dimenticare i suoi passi quando lei e il nonno lasciano Londra una mattina, pagina stupenda; come non vivere con lei la terribilità delle notti trascorse nella città industriale, popolata dalle torri dei forni, “quando il fumo si cambia in fuoco”; non soffrire con lei e per lei la cattiveria e l’insensibilità degli adulti, come quando è tratta in barca dai suoi inseguitori.
I buoni e i cattivi. La divisione è assoluta, manichea. I buoni si riconoscono tra loro, le loro case sono allegre e i loro natali gioiosi anche nella povertà. I cattivi abitano case desolate. Quest’assolutismo preannuncia l’idea del doppio, della crisi d’identità e l’ambiguità morale che sarà tanta parte dell’opera degli scrittori dopo di lui, già affacciati sul Novecento, come Robert L. Stevenson e Joseph Conrad. Il maestro Breadley Headstone, in “Il nostro comune amico” e John Jasper, maestro del coro in “Il mistero di Edwin Drood” sono in procinto di trasformarsi nel doppio Jekyll-Hyde.

giovedì 1 novembre 2007

Il partito del loft alle pendici del Palatino




Qualcuno l’ha chiamato il partito del loft per sottolineare la novità della scelta della sede in Roma del nuovo partito democratico. Non più i fastosi palazzi della Roma barocca, ma dei locali che fino ad ieri son stati dei magazzini, da ristrutturare e arredare con semplicità e modernità, proprio come un loft. Come dire che si cambia abito, e per farlo si ricorre ad un nuovo ambiente e ad architetti nuovi, per il nesso dell’architettura contemporanea con la moda, per la sua tendenza nel progettare gli ornamenti a farsi arte del vestire.
Il luogo, però, dove questi locali si trovano, è particolarmente suggestivo, al lato della chiesa di S. Anastasia, tra il Circo Massimo, che si vede dalle finestre, e il Velabro. Qui in un tempo antico il Tevere formava la palude dove, secondo la leggenda, il pastore Faustolo avrebbe trovato i due gemelli, futuri fondatori della città. Sul Palatino, proprio sulla parte che si eleva in questo punto, in corrispondenza della grotta in cui furono allattati dalla lupa, il lupercale, Romolo, avrebbe quindi edificato l’antica reggia. In questo luogo, per richiamarsi alla tradizione, Augusto costruì il palazzo imperiale.
L’adiacente chiesa di S. Anastasia fu eretta da papa Damaso, al posto di un edificio con botteghe e appartamenti, ai piedi del colle su cui sorgevano i palazzi imperiali. Le vicine chiese di S. Teodoro, di San Giorgio al Velabro e di S. Maria in Cosmedin, alla Bocca della Verità, sorsero intorno al 600, come centri d’assistenza cristiani, al posto di quelli che erano stati magazzini imperiali. Con questi cambiamenti di destinazione d’uso la Roma cristiana s’era andata sostituendo a quella pagana.
Walter Veltroni, attuale sindaco della città, ha ricordato, nel motivare la scelta della sede in cui il partito democratico andrà ad incastonarsi, l’importanza e il grande risalto della zona archeologica romana.
Sarà un loft ai bordi dell’antica area sacra della città.
Potremmo dire che, pur cambiando d’abito, ancora una volta il rinnovamento si legherà all’antico, che sarà ancora l’area sacra di questa città ad esserne testimone. Sarà una nuova Roma. Magari il 2008 sarà “ab partito democratico condito”. Veltroni e Franceschini, presentatisi insieme al mondo dopo le primarie, novelli Romolo e Remo. La città avrebbe ancora i suoi due fratelli, come i Dioscuri di Monte Cavallo, l’attuale Piazza del Quirinale, come i fratelli nella fede della Roma cristiana, i suoi due santi-patrono, Pietro e Paolo.

Etichette