venerdì 9 novembre 2007

Charles Dickens



Nel comporre l’elenco, esercizio sempre molto in voga, dei maggiori scrittori europei tra Ottocento e Novecento, le cui opere abbiano avuto maggiore influenza fino a noi, se non mancano mai in vetta Proust, Tolstoj e Kafka, spesso ci si dimentica ingiustificatamente di Dickens.
Sempre segnalati, in primo luogo, i difetti di struttura dei suoi primi romanzi, in quanto pubblicati a puntate sui giornali. L’etichetta che fu data, con una connotazione negativa, ai suoi lavori di “romanzo sociale”, contro il quale si esprimevano snobbisticamente diversi colleghi contemporanei e successivi. Forse pesava e pesa tuttora la difficoltà da parte del borghese, specie se ricco, di accettare la satira feroce che Dickens non gli risparmia, lo spirito popolare che Dickens non disconosce.



Eppure, ci ha lasciato creazioni potenti. I suoi luoghi-non-luoghi, a cominciare dalla “bottega dell’antiquario”. Luoghi anzitutto metaforici, botteghe, taverne e altri luoghi particolari, il cui nome spesso è già un piccolo gioiello da assaporare, come la taverna in riva al Tamigi, o meglio il raffinato locale di degustazione, noto come “Sei facchini allegri”, in “Il nostro comune amico”. Come i cumuli di rifiuti, trasformatisi in ricchezza, che fanno lo sfondo di questo romanzo. Da rivedere oggi che la questione dei rifiuti ha un’urgenza planetaria.
I suoi personaggi. Una galleria ricchissima, anch’essa perciò criticata, ancora da studiare, analizzare e catalogare. Come le sue tante piccole donne. Come la piccola Nell. Sarà forse ancora un personaggio-non-personaggio, il centro vuoto del romanzo, ma come dimenticare i suoi passi quando lei e il nonno lasciano Londra una mattina, pagina stupenda; come non vivere con lei la terribilità delle notti trascorse nella città industriale, popolata dalle torri dei forni, “quando il fumo si cambia in fuoco”; non soffrire con lei e per lei la cattiveria e l’insensibilità degli adulti, come quando è tratta in barca dai suoi inseguitori.
I buoni e i cattivi. La divisione è assoluta, manichea. I buoni si riconoscono tra loro, le loro case sono allegre e i loro natali gioiosi anche nella povertà. I cattivi abitano case desolate. Quest’assolutismo preannuncia l’idea del doppio, della crisi d’identità e l’ambiguità morale che sarà tanta parte dell’opera degli scrittori dopo di lui, già affacciati sul Novecento, come Robert L. Stevenson e Joseph Conrad. Il maestro Breadley Headstone, in “Il nostro comune amico” e John Jasper, maestro del coro in “Il mistero di Edwin Drood” sono in procinto di trasformarsi nel doppio Jekyll-Hyde.

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