venerdì 9 novembre 2007

Il messaggio di Olmi


Un grande, commosso, tributo popolare ha salutato Luciano Pavarotti e ora Enzo Biagi. La gente ha cuore, riconosce i suoi eroi, quelli che con lei non hanno mai perso i contatti.
L’analisi storico-sociale che dall’alto e da tempo si porta avanti, basata sulla contrapposizione tra politica e antipolitica, e che presuppone una massa di gente incolta, irresponsabile e distaccata dai valori, si va mostrando sempre più infondata. Ha cozzato contro un popolo che ha partecipato alle manifestazioni di Beppe Grillo “ma anche” alle primarie del partito democratico. Lo spirito popolare, per fortuna, è ancora vivo in Italia, anzi trova sempre più le occasioni per esprimersi, anche se qualche volta sono tristi come da ultimo la scomparsa di Biagi.
A questo spirito ha guardato, alla gente semplice, ancora una volta, si è richiamato, Ermanno Olmi, nel suo ultimo e discusso film, “I cento chiodi”. Profondamente calato nell’analisi del caso Italia, Olmi è già stato autore de “Il mestiere delle armi” che illustra le vicende che precedettero il sacco di Roma del 1527. Cronaca quella di una Italia in primo luogo divisa, nella quale i signori e i principi italiani col badare, nel pericolo, ciascuno ai propri interessi collaboravano, in questo sì, alla rovina collettiva. Ne “I cento chiodi” l’Italia che incontriamo sul fiume è fatta di persone un po’ fuori dai ritmi della vita moderna, che mantengono dei tratti genuini regionali: proprio per questo è gente che sa raccogliere il messaggio di fratellanza, di scambio d’esperienze, emozioni e sogni. Che la cultura non si trovi che in parte sui libri, ma l’acquistiamo col nostro guardarci attorno, nel nostro rapporto con le cose e con la natura, e soprattutto col saper cogliere nel contatto con gli altri suggerimenti, idee e sentimenti; che ognuno che incontriamo, il nostro prossimo, può dirci qualcosa d’interessante su cui valga la pena di riflettere, come mostra di fare il professore-Gesù con la gente semplice sulla riva del Po: Olmi ci ha fatto ricordare che queste sono cose in cui abbiamo sempre creduto. A quest’idea movimentista della cultura molti professori, e dottori, oracoli della cultura d’elite, oligarchica, hanno reagito stracciandosi le vesti di fronte all’immagine, certo forte ma metaforica, dei libri inchiodati. Quando ad essi non corrisponde più un’esperienza di vita.
La vita nuova del professore di Olmi, invece, da un lato è un’imitazione di Cristo, come nella più genuina religiosità medievale, e nel rifarne il cammino riscopriamo ancora una volta la forza del suo messaggio; dall’altro proprio per la natura di questo messaggio, valido per credenti e non credenti, è un discorso sugli uomini, sulla qualità dei rapporti tra le persone e con la natura, su cui porre, ritrovare, le basi della nostra convivenza, di una società solidale, e dell’armonia con le altre specie e con il pianeta.
Alla chiusura del secolo dei lumi, nel sostenere la figura dello scienziato dilettante, da cui si sentiva rappresentato, e destinata invece a declinare nel corso dell’Ottocento, Goethe, che in verità dette molti contributi a diverse scienze, in particolare all’anatomia comparata e alla morfologia, scriveva a conclusione de “La teoria dei colori”, richiamandosi anche lui all’esperienza, al farsi del sapere: “Le scienze poggiano, molto più che l’arte, sull’esperienza, e nel trattare con questa molti sono abili. Ciò che appartiene alla scienza riceve contributi da più parti, e non si può fare a meno di più mani e di più teste. Il sapere si può trasmettere, i suoi tesori possono venir ereditati e quanto viene acquisito da qualcuno viene fatto proprio da altri. Non vi è dunque chi non possa offrire il suo contributo alle scienze. Di quante cose non siamo debitori al caso, alla pratica, all’attenzione di un istante? Tutte le nature dotate di una sensibilità felice, le donne e i bambini, sono capaci di comunicarci osservazioni vivaci e pertinenti.”.
Un altro modo per descrivere una società aperta, in grado di avvalersi del contributo di ciascuno di noi.

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