domenica 30 dicembre 2007

Racconto dell'ultimo dell'anno.


Prologo
Che cos’è il tempo? La più ineffabile tra le grandezze fisiche, che per definizione sono appunto grandezze, cioè entità ben definite e misurabili. I fisici sono stati riluttanti, nel loro mondo della precisione, dell’esattezza, all’indefinito, eppure qualche principio d’indeterminazione hanno pur dovuto ammetterlo, proprio quando ci si avvicinava alle particelle più piccole. Sul tempo qualche questione rimane aperta.
I filosofi da parte loro, da S. Agostino a Kant, ricercando in noi stessi, non hanno potuto non rilevare la dimensione soggettiva del tempo.
Infine il vivente. I biologi definiscono la vita con attributi attivi: irritabilità (sensibilità) nutrizione, accrescimento, (auto)riproduzione. Si omette la morte. Già, le piante in teoria camperebbero in eterno, le spore dei microrganismi potrebbero resistere per chissà quanto, ma fatto sta che nel vivente differenziato e specializzato l’invecchiamento e la morte sono fenomeni ineluttabili. Non c’è una legge che lo preveda, e in biologia non ci sono leggi ma dogmi, affermazioni assolute che attendono di essere contraddette, ma finora la “sora nostra morte corporale”, come la chiamava Francesco, non è mai stata contraddetta. L’invecchiamento e la morte danno un chiaro valore d’irreversibilità al tempo biologico. Molti pensano d’ovviare a questo fatto della morte con l’idea che la vita è una, e le morti individuali, o d’intere specie che si estinguono, non spengono la Vita in generale.
Per noi animali superiori, fortemente individualisti, sembra un po’ poco. Il nostro tempo interiore sta come sospeso tra il nostro tempo biologico e il tempo che vorremmo esterno, reversibile ed eterno, il tempo fisico. Invidiamo le pietre che esistono prima di noi e continueranno ad esistere senza che la nostra esistenza sia riuscita a scalfirle. E’questo il paradosso dell’opposizione tra vivente e minerale: il vivente così vivo non lascia traccia di sé, se non incidendo le pietre.

Il Racconto
Il Palazzo s’alzava su un falso altopiano della Campagna Romana, a pochi chilometri dalla Città Eterna, quindi a seconda da dove lo si guardasse poteva dirsi in cima a un colle o in pianura. In realtà non era facile vederlo, l’attenzione ricadeva piuttosto sulla vicina e diroccata torre quadrata, quale isolata, antica presenza in quel punto.
Quella notte però il palazzo era illuminato e illuminato anche il piazzale antistante e l’abete all’estremità del pianoro, pieno di luci, mentre la campagna circostante restava oscura e deserta: come ogni anno e solo in quella data si dava ricevimento.
Entrando, calpestando il lucido pavimento di marmo, non saremmo sfuggiti ad un’atmosfera di vibrante tensione. Il grande salone affollato ma silenzioso, tutti guardavano verso il padrone di casa in cima alle scale, lui pure teso e in certo qual modo insofferente.
Come ogni anno il Tempo, signore del Palazzo, convocava qui gli anni, i secoli e i millenni, passati e… futuri. Come ogni anno, in quella notte si sentiva stanco e insoddisfatto e, come al solito, il festeggiato tardava. Il Duemilaotto, dell’era cristiana, non si era ancora presentato. La paura aveva, dunque, preso anche lui, come tutti quelli che l’avevano preceduto, e che ora aspettavano muti. Solo tra gli anni futuri qualche brusio, addirittura gli sembrò di sentire una risatina.
Il cancello cigolò, una ventata fece capire che il portone silenzioso si apriva: il Duemilaotto arrivava. Il suo passo era leggero: “Che sia femmina?” si sorprese a sperare il Tempo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Che dire?
....
Bellissimo!

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