mercoledì 15 aprile 2009

la ricerca di significati


Può succedere che mentre facciamo le cose di tutti i giorni, s’incappi in qualche pensiero che potremmo definire, senza per questo essere troppo pretenziosi, dato che non siamo professionisti della materia, filosofico. Ad esempio quando occorre un guasto alla caldaia, o alla lavatrice, o qualche altro imprevisto o accidente, come che so cercare un oggetto che sembrava sparito ed invece avevamo sotto il naso ma non riuscivamo a vedere. Sono contrattempi che una volta risolti ci chiediamo a cosa sono serviti. Allora ci accorgiamo che, quando più all’erta e quando meno, siamo sempre in caccia di un significato da dare alla nostra esistenza, nei diversi attimi che la scandiscono. E però ci sono dei momenti che questa ricerca ci sembra particolarmente vana, siamo sommersi dall’evidenza che la nostra giornata è stata condizionata da un guasto meccanico dell’elettrodomestico e quest’evidenza diviene un paradigma della nostra intera esistenza: che tutto intorno a noi avvenga con meccanica indifferenza, piccole e grandi concatenazioni di eventi legati da un nesso causale, che per l’effetto di estraneità che ci produce non sembra doversi riportare ad una causa prima superiore, divina, che in qualche modo ci veda e ci comprenda.
L’intuizione che si genera da questi contrattempi della vita quotidiana è piuttosto quella di un mondo che va avanti da sé con leggi meccaniche, di cui nel momento dell’intuizione ci sentiamo spettatori ma di cui quando gli eventi più ci coinvolgono siamo anche per forza attori, ma allora come ci muoviamo sulla scena, anche noi soggetti- oggetti - cause ed effetti - di questo mondo meccanico? Come se la nostra visione del mondo si capovolgesse: proprio i contrattempi, gli accidenti, sono espressione e ci fanno riscoprire la causalità necessaria e indipendente dalla nostra volizione, e dal nostro flusso di coscienza con il quale solitamente siamo nel mondo.
La legge che governa il mondo meccanico è stata trovata, una ed universale, la legge della gravitazione. Spiega molto bene il mondo comune, quello dei nostri contrattempi. La scienza normale che ne consegue recita che ogni evento è determinato, cioè prevedibile quando si conoscano i dati del sistema: le coordinate dei punti, le velocità…
Ma avventurandosi l’uomo nei segreti della materia, nell’infinitamente piccolo delle particelle che compongono l’atomo, ha dovuto fare un passo indietro, ammettere una certa indeterminazione, il principio di Heisenberg, appunto. A livello degli elettroni possiamo piuttosto parlare di probabilità che essi si trovino in un certo punto. E così la causalità ha dovuto ridare un po’ di spazio alla casualità. In fondo riconnettersi a quella deviazione casuale degli atomi nei loro urti, prevista nel mondo democriteo. Un po’ di libertà, di quella fortuna che ai nostri occhi, cui sfuggono le cause più remote, e in genere le coordinate di tutti i punti, spesso ci sembra che la faccia da padrona nel mondo.
Non è però tanto la questione della libertà e del volere umano in un mondo meccanico ciò che più ci colpisce di fronte ai nostri contrattempi quotidiani ma è l’assenza apparente di un significato. Ci accorgiamo allora che la ricerca di significato in tutto ciò che facciamo, anche nelle piccole cose, anzi ce ne rendiamo maggiormente conto davanti agli stupidi e insignificanti contrattempi, è per noi fondamentale e costante. Cerchiamo continuamente d’interpretare il mondo, di trovare dei segni nel grande come nel piccolo che ci circonda. Ma se a tratti il mondo ci appare come risultato di banali cause ed effetti, oppure proprio di meri accidenti, che ne è di questa nostra ricerca e da dove ce ne viene l’impulso?

lunedì 6 aprile 2009

Redistribuzione della ricchezza

Si è riscoperta l’ingiustizia, si parla di redistribuzione della ricchezza: in questo caso dai ricchi ai poveri - perchè il sistema di per sè tende nelle sue crisi all'opposto, a riconcentrare la ricchezza su pochi - di crescita sostenibile, quando fino a pochi mesi fa era la libertà a tenere banco: quella del mercato naturalmente. Un sistema quello del capitalismo occidentale sopravvissuto e trionfante sulle catastrofi del Novecento e perciò accolto, per mancanza di avversari, come il migliore dei mondi possibili, quando per contro la capacità di immaginare il futuro e nuovi mondi si è andata perdendo nell’appiattimento del villaggio globale, cresciuto su questo modello, con la sua tendenza ad occultare le identità, quei passati da cui le idee per il futuro si alimentano.
Questo capitalismo però è ora entrato in una fase di crisi acuta, affrettata e ancor più accentuata da una scellerata speculazione finanziaria. Crisi tali però sono previste dagli esperti che conoscono le pecche del sistema e sanno che allora occorre immettere dall’esterno dei correttivi, come una certa redistribuzione della ricchezza in senso contrario a quella attiva dentro il sistema; insomma ricordarsi dell’ingiustizia per correggere la libertà - eccessiva - del mercato. Perché alla fine sembra che questa libertà vada sempre in una direzione contraria alla giustizia sociale, e dopo aver creato un certo benessere torni ad accumulare la ricchezza nelle mani di pochi e a far impoverire molti. La crisi “reale” sarebbe questa, che la gente non si ritrova più i soldi in tasca per consumare, quando il mondo intorno a lei è pieno di supermercati e negozi che straripano di merci. E questo è realmente assurdo, nel senso che ci siamo allontanati troppo dalla realtà delle cose.
Chissà se l’Africa è poi contemplata nella nuova sete di giustizia e di redistribuzione della ricchezza che sta percuotendo l’Occidente.

mercoledì 25 marzo 2009

Una casa per tutti









E se poi potranno “partecipare” al piano di sviluppo edilizio, quello che dovrebbe avviare la ripresa economica del Bel Paese, solo i proprietari di case mono e bifamiliari, cioè di ville e villette, allora non possiamo che rilanciare: una casa per tutti!
Come ha detto il Presidente degli Stati Uniti in una intervista, le leggi devono essere applicabili a tutti i cittadini. Chi la casa non ce l’ha è stato già escluso dai benefici dell’abolizione dell’Ici, che pure è stata motivata dal Governo con l’idea che la casa è un diritto.
Adesso, se l’ampliamento delle case nei palazzi crea troppi problemi, si demanderebbe l’incremento edilizio ai ricchi e ricconi proprietari di villette a schiera e villone, che già infestano le nostre campagne e che non sembra, a guardarsi in giro, che abbiano mai smesso di essere costruite ed ampliate. I cittadini che non hanno casa, magari, dovrebbero pure ringraziarli perché risollevano le sorti economiche del Paese.

mercoledì 11 marzo 2009

Il fantasma della libertà



In un articolo di Ralph Dahrendorf, comparso circa una settimana fa, sui pericoli per le democrazie in tempo di crisi, si osservava, tra le altre cose, come i cittadini della classe media, ma ormai la classe media si è enormemente dilatata e quindi più in generale i cittadini che vedono in pericolo il loro reddito, divengano disponibili a cedere sul piano delle libertà che loro spettano per una maggiore sicurezza sia sociale ma soprattutto economica.
Il caso del nostro Paese in questi giorni in cui il governo si prepara a varare nuove disposizioni su diversi fronti, l’edilizia, le infrastrutture, i regolamenti di voto in Parlamento, e perfino la caccia, val la pena di essere esaminato dal punto di vista di Dahrendorf.
Prima però vorrei fare qualche osservazione sulla crisi economica mondiale che attualmente ci grava sulla testa. Questa crisi è stata provocata dalla speculazione finanziaria. Infatti essa non è contemplata dalla disamina di Dahrendorf, che invece si “attarda” a spiegare le difficoltà cui vanno fisiologicamente incontro – cioè sono state previste e già studiate da economisti, sociologi e intellettuali in genere - le società capitalistiche avanzate, e che riguardano, in sostanza, il mantenimento, dopo un certo grado del loro raggiungimento, di alcuni parametri fondamentali, quali il welfare, cioè il grado di benessere, il livello di occupazione etc etc. Già nel mondo tratteggiato da Dahrendorf, nonostante i correttivi da lui indicati, s’intuisce che il capitalismo moderno non è affatto il migliore dei mondi possibili, e viene il dubbio che esso non abbia via d’uscita: quando la polarità tra ricchi e poveri s’attenua il sistema va in crisi, la crescita si arresta e alla fine l’unica soluzione, interna, cioè da parte del sistema, sarà proprio quella di ridistribuire le ricchezze in modo che i ricchi tornino molto più ricchi e i poveri molto più poveri, così che il trend positivo possa ricominciare. La crisi finanziaria attuale rappresenta un lato ancora più oscuro di questo mondo imperfetto e contribuisce a produrre, anzi accelera, lo stesso risultato finale: la "ridistribuzione della ricchezza" con alcuni ricchi che diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Questo senza che terremoti, cataclismi, guerre o pestilenze siano intervenuti a cambiare nella realtà lo stato dei beni primari, da cui procede la nostra sussistenza. A ben pensarci, si tratta di crisi virtuali.
Sono meccanismi più grandi di noi. Ma se anche dovessimo tornare “con le pezze al culo” potremmo ancora tenere alla dignità e alla libertà. Potremmo almeno stare attenti a non venderci l’anima. E a quale prezzo poi? Per trasformare il balcone in una stanza in più? Per imbalsamare qualche povero animale?

domenica 8 marzo 2009

Giovanna d'Arco


Ingres, Giovanna d'Arco all'incoronazione di Carlo VII, Louvre.


Facendo zapping, seduta sul divano in un pomeriggio domenicale, mi sono trovata a tu per tu con Giovanna D’Arco, attraverso il film di Christian Duguay. Scettica all’inizio verso questo programma per la televisione, ho finito per calarmi in pieno nella sua rapida, fulminante epopea, consumatasi pressappoco in due anni, finita sul rogo quando ne aveva appena diciannove.
Nasce in un villaggio, Domrémy, una contadina. Molto probabilmente analfabeta, ma educata religiosamente dalla madre. All’età di tredici anni comincia ad avere le sue visioni. Siamo al culmine della guerra dei Cent’anni. La Francia è profondamente divisa tra gl’invasori inglesi, la corte borgognona e il delfinato di Carlo VII. Giovanna cresce in un territorio dove le diverse influenze si fanno sentire e la popolazione è continuamente esposta ai soprusi delle truppe mercenarie di passaggio. Può una ragazzina contadina, la cui unica educazione è stata quella religiosa familiare, maturare un così alto pensiero nazionale, civile, patriottico e nello stesso tempo religioso, essere così grandemente ispirata e saper trovare la forza di guidare sapientemente un esercito? Giovanna lo ha fatto. E’ dunque per me un grandissimo esempio della forza che può provenire anche dalla gente comune, dal popolo.

Giorgio Spini, nella sua Storia dell’età moderna, che comincia praticamente un secolo dopo la vicenda di Giovanna, la ricorda affermando che lo spirito della Francia moderna è nato dalle sue visioni, oltreché dalla ragione giuridica dei legisti della monarchia. Come dire, secondo Spini, dalle componenti dello spirito romano, ordinatore, costruttivo e stoico, e dello spirito gallico, che ritroviamo in Giovanna, con: - la sua implacabile logica consequenziaria, il suo impeto ignaro di compromessi e di paura, le sue visioni che sfidano ogni scetticismo. -.

Nel suo Autunno del Medioevo Johan Huizinga si occupa dei due secoli che precedono il Rinascimento, particolarmente nell’ambiente borgognone, e comprende la parabola di Giovanna, ricordandola con diverse citazioni, ma più che altro per esemplificare quegli aspetti sociali e di costume che caratterizzano la sua particolare angolazione storica. Ad esempio, Huizinga ci dice che nel 1432 erano ancora molto in voga delle liste dei maggiori eroi cavallereschi, come il gruppo dei nove eroi, di cui era stata compilata anche una versione al femminile, e che questi eroi si volevano portare a dieci e, in campo femminile, il nome d’aggiungere avrebbe dovuto essere quello di Giovanna, ma non se ne fece nulla. Dice Huizinga: - Un gruppo eterogeneo di generali, che aveva combattuto accanto o contro Giovanna, occupa nell’immaginario dei contemporanei un posto molto più elevato che non la contadinella di Domrémy. Molti parlano di lei senza commozione o venerazione, più che altro come di una curiosità. -. Ma questo non ci stupisce perché il mondo che Huizinga ci descrive sta scomparendo, imputridisce, mentre con Giovanna è una Francia nuova, come rileva Spini, che avanza!

Le visioni di Giovanna erano visioni di santi: san Michele arcangelo che in Francia aveva il suo santuario a Mont San Michel, da opporre a san Giorgio protettore degl’inglesi, Santa Caterina d’Alessandria, e Santa Margherita d’Antiochia. Sappiamo come gli arcangeli, angeli guerrieri, furono particolarmente venerati dai popoli barbari che si convertivano al cristianesimo, e le due sante erano tra le più grandi per le più antiche comunità cristiane e fino al tardo medioevo. Era la madre a raccontarle le loro storie edificanti.Queste figure femminili possono aver suggerito a Giovanna di poter confidare in se stessa in un mondo di uomini.
In proposito Huizinga osserva che, mentre il culto delle loro reliquie era in quel periodo all’apice, i santi comparivano relativamente poco nella sfera delle esperienze sopranaturali. Proprio in ciò Giovanna è, non a caso, un’eccezione. Secondo Huizinga, dagli atti del processo risulterebbe che la stessa Giovanna proprio durante gl’interrogatori si sia chiarita chi erano i santi che le apparivano per darle consigli: dapprima ella parla solo del suo Conseil senza dargli un nome; soltanto in un secondo tempo lo indica con le note figure dei santi.
Ma ciò accade perchè le sue visioni sono una sintesi potente che avviene nell’animo della ragazza e perciò rifuggono in lei dall’essere analizzate. Sintesi dai racconti materni, la storia religiosa tramandata, è questa la sua cultura, sintesi del sentimento della patria da liberare e riunificare, della sofferenza del popolo, è questa la sua esperienza, sentiti così fortemente da poter aspirare a diventarne lei stessa strumento d'attuazione. In un mondo ancora medievale dove tutto è creato e sottoposto al controllo diretto di Dio, sentimento religioso e sentimento patriottico e civile giungono con Giovanna ad una sintesi nuova.


Seduta sul divano davanti alla televisione la vedo cavalcare verso Orleans, preoccuparsi di rifornire di viveri gli abitanti della città assediata; chiedere, informarsi e trovare le mosse giuste per liberare la città; ferita, farsi estrarre una freccia e rimontare a cavallo, guidare e spronare i compagni.
Non sto bene, sono nei giorni un po’ più pesanti della terapia che sto seguendo, e m’incanto a guardare Giovanna. Penso alle nostre fragilità di donne anche quando stiamo bene e alla grande forza che deve averla animata: il suo essere grandemente ispirata trascinava il suo corpo.

Giovanna è santa. Il suo spirito religioso è genuino e la sua vita si è conclusa col martirio, solo che a sottoporvela fu proprio la chiesa istituzionalizzata. Anche se la sede di Roma non fu interpellata e vent’anni dopo le rifece il processo riabilitandola e proclamandola martire della fede, essa aveva dotato di così terribili strumenti i suoi vescovi!

L’abiura fu un momento di debolezza che però le precluse ogni via d’uscita. Ma Giovanna non volle tradire se stessa, la sua fede, la sua missione, tutto ciò in cui aveva fortemente creduto. Bisogna esporsi come insegna il Cristo esposto in Croce: Giovanna giunge a questa consapevolezza e, sul rogo acceso, vuole che le si ponga davanti una croce.

mercoledì 18 febbraio 2009

La crisi del progetto riformista



Cerco di sviluppare alcuni punti appena dichiarati nel post precedente.
L’idea, il progetto, probabilmente, era quello di un Paese più moderno, come l’esempio inglese, di un bipolarismo, che facesse piazza pulita dei partitini e dei massimalismi ormai ritenuti veteri, dopo la fine della guerra fredda; duttile all’alternanza e basato sulle riforme che dovrebbero eliminare gli arcaismi, le sperequazioni e la stagnazione sociale che a tutt’oggi di fatto definiscono l’Italia un paese più arretrato rispetto all’Europa con cui ci si vuole confrontare.
Dunque, prima domanda, questo progetto riformista è adeguato alla realtà dell’Italia, alle sue insufficienze e disuguaglianze? Quale maggioranza sarebbe in grado di sostenerlo?
Abbiamo visto come l’Unione, la grande coalizione che sosteneva il governo Prodi, abbia tentato due liberalizzazioni e poi lasciato perdere. Bersani disse nell’occasione che era importante anche solo l’idea: eh no, che l’idea non basta! Certo questa coalizione aveva una maggioranza esigua al Senato ma certe leggi non ha neppure provato a farle: la riforma della legge elettorale, la legge sul conflitto d’interessi, per esempio. Poi s’è data tutta la colpa alla sinistra massimalista, ma gli ostacoli principali alle riforme e alle leggi suddette non venivano certo da quella parte.
Al governo Prodi è stato solo concesso di migliorare il bilancio dello Stato: “il lavoro sporco” – ha detto qualcuno. Di certo necessario per la nostra credibilità in Europa ma che ha gravato, con l’aumento delle tasse, e senza l’auspicata equità, sulle spalle dei più poveri. Con ciò anche la fossa per il governo Prodi era stata scavata.
Berlusconi si lamenta di non essere trattato con riguardo dall’opposizione, spesso si sente offeso, eppure in realtà è, ed è stato fin dai tempi di D’Alema e della bicamerale, riconosciuto l’interlocutore valido del progetto riformista! Infatti altro punto fondamentale del progetto del bipolarismo riformista dovrebbe essere quello di riconoscere nel polo avversario un interlocutore valido per la stagione delle riforme. Allora, altra domanda, è tale Silvio Berlusconi, con l’idea di governo che sta esprimendo nel suo governare attualmente, per la sinistra riformista? E’ certo che secondo quest’ottica si spiegano molte cose: la campagna elettorale soft del partito democratico, l’eclissarsi in taluni momenti dell’opposizione parlamentare. Ma che essa trovi il consenso degli elettori del partito democratico, più saggi e avvertiti, perché la vita se la vivono nelle difficoltà del momento di crisi planetaria, è fuor di dubbio che non è e che siamo giunti alla bocciatura.

martedì 17 febbraio 2009

Addio a Veltroni



Ho cominciato questo blog, nell’ottobre del 2007, con un post sul partito democratico appena costituito, e quindi non posso fare a meno di commentare l’uscita di Walter Veltroni. Alle primarie di Prodi c’ero, ho votato alle primarie del Pd.
Leggo su Repubblica.it un commento di M. Giannini che si conclude così, riferito alle sorti del partito democratico e alla possibilità di ridivisione del Pd tra Ds e Margherita:

“Sarebbe un dramma, non solo per i destini del centrosinistra ma per il futuro del bipolarismo italiano.”

Questo giornale raramente fa autocritica. Perché non riconoscere che il progetto del bipolarismo, e quello congiunto del riformismo, da ottenere a tutti i costi, sacrificando la sinistra massimalista, o radicale, in quanto ad essa deve appunto sostituirsi la sinistra riformista, è per ora fallito con la vittoria di Berlusconi? Che era calato dall’alto? Che non rispecchiava il Paese e non ne tutelava le fasce più deboli rispetto ad una crisi economica planetaria incipiente? Aspettiamo che i contrasti sociali si sanino con il lungo periodo delle riforme quando c’è bisogno d’interventi mirati e urgenti, come sta facendo Obama?
Si sono messi ostacoli all’allargamento della base democratica del nuovo partito, attenti a riproporre le gerarchia preesistenti nei vecchi partiti, si è guardato con sospetto alla società civile, si è contrapposto alle masse le elites intellettuali e di partito. Il change come al solito era solo un’idea.

lunedì 9 febbraio 2009

Dall’America all’Italia. (Lo stato delle cose)



Mi è stato chiesto di confrontare le ultime vicende nel nostro Paese “con le speranze che il Governo di Obama ha destato in molti di noi”.

Intanto non mi è piaciuto lo sbarramento al quattro per cento della nuova legge elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo. Va be’ che ci sono paesi europei come Inghilterra e Germania che hanno uno sbarramento più alto, ma prendiamo l’Inghilterra: lì ci sono di fatto solo due partiti! Mentre da noi il fatto è proprio la frammentazione politica, l’esistenza di molti piccoli partiti. E’ giusto – è democratico ? – tagliarli fuori con una legge elettorale o la loro scomparsa, se è auspicabile, non dovrebbe avvenire “naturalmente” nell’evoluzione della politica?
La frammentarietà politica, del resto, sembra, anche a guardare indietro nella nostra storia, un dato insopprimibile, che riemerge appena totalitarismi o influenze straniere vengono meno. Una folla di partitini, con i simboli più stravaganti, era rifiorita in Italia proprio a seguito del venir meno dei due grandi partiti storici del Novecento, che si erano fronteggiati fino al crollo del muro di Berlino del 1989. I partitini sembrano ancora corrispondere a quelli che Machiavelli, ai suoi tempi, chiamava gli spicciolati della politica italiana. Né si può dimenticare che tra questi piccoli partiti si trovano oggi quelli della sinistra massimalista - uno dei quali fino a ieri così piccolo non era - di cui forse in Parlamento, sia al governo che all’opposizione, ci si vuol più rapidamente liberare; che tra questi piccoli partiti vi sono quelli che attualmente fanno un'opposizione più dura al governo.
Il ripristino della messa in latino è stato uno dei primi segni di un ritorno al passato dentro il Vaticano. L’età giovannea, con il Concilio Vaticano II fu un grande momento di rinnovamento che si attuò in molte forme. Tra queste fu fondamentale la scelta della liturgia in italiano. Gli antichi altari furono abbandonati, per costruirne di nuovi rivolti all’assemblea dei fedeli, perché ogni atto che compie il sacerdote fosse visto e compreso. Nelle parrocchie si spiegava ai fedeli perché la Messa cambiava, e come l’introduzione della lingua corrente dovesse contribuire alla comprensione dei diversi momenti liturgici, anche complessi e altamente simbolici, della Celebrazione. Quello che mutava era il rapporto tra la Chiesa e i Fedeli non solo perché la prima che sceglieva di rivolgersi finalmente a credenti consapevoli e responsabili ma perché li sollevava a co-Celebranti. Si potrebbe dire una nuova democrazia anche dentro la religione!
Anche la recentissima riammissione dei vescovi lefebvriani che non accettarono il Concilio Vaticano II, è un altro forte segnale, e questo nonostante quello che costoro pensano del nazismo e della Shoah. C’è stato un momento, prima che le critiche si levassero da molte parti, in cui la riammissione di questi vescovi scismatici e la condanna della negazione dello sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti sono state, nelle affermazioni del Pontefice, su due binari separati che non s’incontravano.
Il ritorno al passato dentro il Vaticano, congiunturalmente, trova un riscontro nell’attuale leadership politica che governa in Italia. Quando la difesa della vita umana si focalizza, piuttosto che sulla guerra, le condizioni di povertà, d’ingiustizie e i delitti, sui casi più speciosi in cui è veramente difficile definire la vita, come nel caso degli embrioni, e di situazioni-limite, come anni e anni di vita vegetativa, essa può diventare strumentale al fine di comandare sulle coscienze. Lo Stato, la res pubblica, è chiamato a regolare e a stabilire il confine tra ciò che compete ad una saggia amministrazione e le coscienze individuali. Lo Stato, nell’espressione della nostra Costituzione, si è rivelato perciò il bersaglio ultimo delle polemiche accese di questi giorni. Ma la nostra Costituzione non è stata dettata dall’Unione Sovietica!!! E’ stata il frutto dell’unità nazionale creatasi all’indomani del disastro della guerra. E i nostri padri fondatori hanno saputo inserirvi le basi della sua salvaguardia: per modificarla con cambiamenti importanti occorre una grande maggioranza del Parlamento, occorre cioè che nel volerla modificare si esprima ancora un’unità del Paese!

giovedì 22 gennaio 2009

Obama chiude Guantanamo



L’importanza che il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha voluto dare a questa decisione, divulgando la bozza dell’ordine esecutivo che prevede la chiusura del carcere e di un altro che mette al bando la tortura, il giorno dopo del suo insediamento, taglia corto su presunte continuità con la precedente amministrazione.
Sto leggendo un libro di Nadine Gordimer “Un ospite d’onore”, 1970, e succede che la letteratura mi aiuti a mettere meglio a fuoco ciò che accade nel mondo. Un ex funzionario coloniale inglese, licenziato a suo tempo perché considerato a favore del movimento indipendentista africano e tornatosene perciò nella campagna inglese, viene invitato a tornare nel Paese che ha raggiunto l’indipendenza per partecipare ai festeggiamenti. Gli viene quindi offerto un’ incarico dal nuovo Governo, di occuparsi di riorganizzare l’istruzione pubblica. Per fare questo si pone in viaggio all’interno delle zone più povere da lui conosciute quando era funzionario del governo inglese. Sono arrivata, nella lettura, al punto in cui dà un passaggio casualmente ad un giovane e taciturno africano, del quale poco dopo viene a sapere che essendo un simpatizzante dell’opposizione, poiché il nuovo governo africano non ha saputo esprimere un’unità nazionale ed uno dei leader principali del movimento indipendentista è stato tagliato fuori e vuole appunto organizzare l’opposizione, è stato arrestato e tenuto “due mesi e diciassette giorni” in prigione, senza alcun ordine di arresto, senza processo. Chiede allora il protagonista:
- Ma a chi compete la responsabilità d'impartire un ordine del genere? E chi lo firma? La detenzione preventiva è stata abolita nel Paese. –
Il ragazzo è stato anche torturato.Tutto ciò fa nascere un grave conflitto morale nel protagonista, che teme che il capo del governo, da cui ha accettato l’incarico, sia direttamente coinvolto nell’illegalità e nell’ingiustizia di questa detenzione.
La legalità e la giustizia sono fondamentali per le democrazie moderne. L’America un tempo descritta e considerata come il luogo sia dal punto di vista della giustizia che degli affari della libera sopraffazione è invece stata capace di darsi regole che le hanno permesso di diventare un grande Paese, una democrazia moderna: una regola di questo Paese è stata che le regole vanno rispettate.
E’ molto bello che sia un Presidente d’origine africana a saper riaffermare e ricordare ciò agli americani.

martedì 20 gennaio 2009

Enciclopedia del ricordare, "Lessico familiare"



Nel cuore dell’antichissima città sollevata sulle sue alture a guardare il mare e i suoi templi, nell’androne del vecchio palazzo, dove c’erano solo due porte affrontate, i cui appartamenti erano a pianterreno sulla strada, e dalla parte opposta avevano i balconi perché la collina digradava, i ragazzini giocavano a palla. L’uno tirava il pallone contro il muro e chiamava quello che dopo di lui doveva calciarlo. Erano tre fratelli, due bambine e un maschietto, e s’erano inventati per l’occasione un nome ciascuno. Due erano quasi uguali, se non per la sillaba iniziale e il terzo invece era completamente diverso: Llacchera, Pillacchera e Tarlone. A questi soprannomi che avevano echeggiato insieme al rimbombo della palla nel vecchio androne dell’antichissima città, che ben presto lasciarono per trasferirsi altrove, non pensarono più o anche se qualche volta essi tornavano nella loro mente non li pronunciarono più.
Nella loro nuova casa nella città per loro nuova venne a raggiungerli una sorellina. Siccome i suoi fratelli erano molto più grandi di lei la piccola cresceva soprattutto a contatto con la madre che le raccontava tante favole, le più belle e famose, che si faceva ripetere appena già finite, ma soprattutto le raccontava storie di quella città che avevano lasciato, dove non sarebbe più tornata. I suoi fratelli invece non avevano tempo per giocare con lei e raccontarle le loro storie. La madre le raccontava soprattutto non della casa con l’androne dove i bambini avevano giocato per non stare sulla strada, ma della casa del nonno, del giardino, dei fiori che il nonno coltivava, della rosa bianca Regina delle Nevi che fioriva in inverno e che alla bambina sembrava della stessa sostanza di quelle delle favole. Le raccontava della sua infanzia e della sua giovinezza, di tutti quei parenti, ognuno con una storia interessante e complicata come un romanzo, ogni volta uno da mettere in primo piano.
La bambina cresceva e sapeva tutte quelle storie a memoria ma poi si stancò di stare ad ascoltare sua madre e alla fine s’accorse che non le ricordava più tanto bene. Le ricordava sì ma senza quel nitore con cui le aveva sapute immaginare da bambina e mentre sua madre invecchiava questo era uno dei suoi crucci segreti, di non aver saputo ritenere come avrebbe voluto i ricordi che lei le aveva raccontato.
Ma la madre raccontava sempre della casa del nonno e della sua gioventù in quella città lontana e quando la sua figlia minore si sposò anche suo marito conobbe quelle storie. Eppure anche quelle volte la figlia si distraeva e non riusciva più a riappropriarsi di quei ricordi come li aveva posseduti quand’era bambina. Ripensandoci però la figlia si persuadeva che i ricordi della sua infanzia erano incastonati nei racconti di sua madre.
Molto tempo dopo durante il quale i quattro fratelli s’erano fatti ognuno la loro famiglia e rimasti senza i genitori, accadde che due di loro litigarono e non si parlarono per diversi anni. Il tempo e la malattia di uno alla fine ebbero la meglio sull’ostilità, l’incomprensione che si era creata tra loro. Allora il fratello più grande riprese il vecchio soprannome che si era dato quand’era bambino, Tarlone - ma che razza di nome è? - disse sua figlia quando lo sentì - e anche le sorelle si ricordarono il loro, LLacchera e Pillacchera, e anche se la sorella più piccola, quella con cui aveva litigato, allora non era ancora nata, si riunirono tutti idealmente nell’androne di quel vecchio palazzo di quella città antichissima sollevata a guardare il mare.
E la cosa più strana è che un giorno si misero insieme a cercare di ricostruire com’era fatto il giardino del nonno. E finalmente alla loro sorella più piccola sembrò che la nebbia che avvolgeva quei ricordi si dissolvesse e le cose descritte da sua madre si ricolorassero.
Il giardino del nonno veniva definito come un giardino pensile. Un trapezio allungato, compreso tra la casa e i muri di cinta. Il muro esterno più lungo, costeggiava una stradina che scendeva verso il basso, poiché tutta la città digradava precipitosamente dalle sue alture verso il mare lontano pochi chilometri, quel mare antichissimo pure lui colmo di storia. Il lato più stretto era quello che dava sul mare, e perciò a sud ovest, e però s’alzava sulla strada e le case di sotto a diventare una terrazza con la ringhiera, mentre il muro che si ricongiungeva alla casa, la quale stava sul lato opposto alla terrazza, chiudeva sul dirupo della collina, aspro in quel punto. Il portone, anzi “l’entrata” si trovava a capo della stradina, poco dopo avervi svoltato dalla strada principale. Entrati, un cortile ampio lastricato di mattoni rossi, rialzato ai bordi, così da formare a destra lungo il muro di casa come un sedile. A sinistra c’erano dei vasi sul bordo rialzato a chiudere quel lato del cortile e quindi da terra i tralci della vite che s’alzavano a fare da pergola – sulla pergola i tre fratelli più grandi erano tutti d’accordo-. Una prima porta, a vetri, di uno stanzone profondo che aveva il muro esterno ad angolo sulla stradina, s’apriva a destra, poi la casa faceva angolo e di fronte, in fondo al cortile, c’era l‘ingresso principale, che immetteva nel soggiorno-salotto, da cui si arrivava in avanti alla cucina e sul retro alle camere da letto. Succedeva che man mano che la casa si precisava nella sua struttura e nei suoi rapporti con il giardino la figlia più piccola poteva ricollocarvi sua madre, e i nonni e gli zii, e recuperare molto delle storie che aveva sentito; ritrovava sua madre e il sentimento affettivo che la legava a lei nei momenti in cui l’ aveva ascoltata da bambina.
Appena dentro il giardino, a sinistra, c’era una grande vasca attaccata al muro, piena di pesci, che quando s’entrava accoglieva con una zaffata d’umido e i bambini dovevano arrampicarcisi per riuscire a vedere i pesci. Decisamente la vasca era la cosa che i fratelli ricordavano meglio, anche la più piccola che non l’aveva mai vista. Dalla casa alcuni gradini scendevano nel giardino vero e proprio con i vialetti segnati dalle siepi di mortella profumata, le rose e gli alberi da frutta: nespoli, melograni, meli cotogni e mandarini con i frutti “grossi così”. Un alto carrubo stava vicino alla cucina. Si poteva ritornare alla fontana all’entrata o, percorrendo il sentiero principale che era al centro del giardino, salire dritti alla terrazza, tra due muri di gelsomino. C’era un contrasto vivace tra il giardino così fitto di alberi e piante, quasi cupo e però riposante, che insieme ala pergola lasciava in ombra le stanze della casa, tutta a pianterreno, e la terrazza assolata, lastricata di mattoni anch’essa, con maioliche azzurre alla parete e piena di rose alla ringhiera. Come doveva essere stata magnifica la vista del mare da quella terrazza, e com’era stata decantata, con quel mare così azzurro quand’era azzurro, con la curva della costa così ampia e maestosa da far distendere l’anima come in un lungo respiro.
Ma in quel giardino c’erano ancora altre attrazioni. Lo stanzone con la porta a vetri sul lato del cortile conteneva le statue della Madonna addolorata e del Cristo morto a grandezza naturale. Stavano sempre lì sopra una tavola rialzata tutto l’anno, e la porta a vetri l’incorniciava come in una bacheca. Il Venerdì Santo però erano portati in processione e la stanza veniva addobbata affinché la gente potesse poi entrare a vedere quella sacra rappresentazione. Un po’ di quella devozione, del gusto delle statue di santi, la madre l’aveva portato con sé lontano da quella città e dalla casa paterna tanto amata. Con quelle statuette di santi la figlia minore aveva anche giocato e a qualcuna si era staccata la testa, qualcuna era andata in frantumi, così della grande grotta della Madonna di Lourdes che in basso aveva l’incavo quadrato dove mettere Santa Bernadette era rimasta solo la grotta che poi fu donata al vicino convento di suore. Il “Cuore di Gesù”, nel suo tempietto di metallo, si era salvato, la cupola di vetro del tempietto no. Ma soprattutto era rimasto Il Bambinello nella sua teca di legno con il vetro su tre lati. L’aveva vinto uno zio ad una riffa e l’aveva portato alla sorella in corteo con gli amici per le strade della città. Poi gli era stata fatta la vetrina di legno per custodirlo. Era stato il santuario della famiglia e quando si pensò che un giorno sarebbe stato anche lui mandato alle suore la figlia più piccola aveva detto: – Allora lo prendo io. – Così sua madre quando stava per morire ma aveva ancora la forza di parlare, tra le altre cose affermò che il bambinello doveva restare a quella sua figliola.
Un’altra particolarità della casa del nonno era l’uccelliera cui si accedeva da una botola nel pavimento della cucina ma i fratelli congetturavano che quell’ambiente dovesse avere una anche portafinestra che dava all’esterno, poiché le gabbie la mattina dovevano essere portate all’aperto e nel pomeriggio riportate nella camera e coperte con un panno e attraverso la botola sarebbe stato troppo faticoso. Secondo lo zio, il nonno poteva considerarsi un vero ornitologo, infatti allevava centinaia d’uccelli, in particolare passeriformi, delle famiglie dei fringuelli e dei tordi e cioè cardellini, passeri canarini, ciuffolotti, verdoni, usignoli ed altre specie che incrociava producendo nuove razze. Era soprattutto interessato agli uccelli canori ed era orgoglioso di aver selezionato un campione del canto che era chiamato mastro cantore, per la qualcosa ebbe a vedersela col vescovo, forestiero, venuto da una lontana regione del nord, che se n’era invaghito e glielo aveva richiesto.
E dunque nel giardino del nonno il profumo dei fiori e dei frutti doveva essere accompagnato dal concerto degli uccelli canori.
Quando il nonno morì la casa fu venduta.
Poi vollero ingrandire la città e costruirono alti palazzoni che ne modificarono l’immagine esterna, e chiusero la vista del mare a molte delle vecchie case della città e anche al giardino del nonno. La terrazza sparì. I grattacieli moderni, come alberi giganteschi a cui fosse stato fatto un brutto incantesimo e trasformati in parallelepipedi di cemento pieni di buchi, affondavano le loro radici giù, giù in fondo alla nuova strada e all’altezza della stradina se ne vedeva solo la parte superiore che ancora sovrastava dall’alto le vecchie case.
I fratelli ciascuno per suo conto avevano, negli anni, fatto visita, chi più volte, all’antichissima città, e avevano visto i cambiamenti dall’esterno della casa del nonno. Ora cercarono su Google Earth e videro dall’alto che anche l’interno del giardino era molto cambiato e non in meglio ma di tutto ciò non si dispiacquero perché sta scritto nella canzone:
There are places I’ll remember
All my life, though some have changed,
Some forever, not for better!

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