lunedì 7 aprile 2008

Gli asfodeli di Cere



(frammento da un racconto – probabilmente inedito)

“ Presero la strada fiancheggiata da pini e cipressi che conduceva alla necropoli monumentale che già era il tramonto. Si erano attardati nell’attuale Cerveteri a mangiare pizza e dolci etruschi come diceva la scritta sopra l’entrata della pasticceria. Cristina ricordava cosa c’era scritto sul manuale di Massimo Pallottino. Se Veio era scomparsa, Cerveteri era l’immiserito erede dell’antica metropoli, un centro che era stato eccezionalmente ricco e popoloso, forse uno dei più splendidi del mondo allora conosciuto. Prima avevano attraversato in macchina l’abitato fino alle ultime case, sul pianoro tufaceo. A piedi avevano disceso la strada che costeggiava la rocca turrita, giù verso il fosso per trovarsi a tu per tu con i possenti massi tufacei che vi si elevavano, completati nella loro discontinuità dalle altissime mura di blocchi squadrati. Di là dal fosso sul pianoro opposto, una processione di pini e cipressi indicava la via alla necropoli, anche se Cristina e Daniele ancora non lo sapevano e si chiedevano dove portasse. Come riconobbero poi, a Cere la città dei morti affrontava la città dei vivi, quasi vi gareggiasse, entrambe allungate sugli opposti pianuri tufacei separati dal fosso inciso nel tufo. Per raggiungerla occorreva uscire dalla città dal suo lato corto, passare sotto gli ultimi bastioni smozzicati, transennati e quasi inghiottiti dalle case costruitegli addosso, e risalire subito a destra la strada tortuosa che infine si distendeva tra i pini e i cipressi. Invece sbagliarono e presero prima la strada del Sasso, in una conca ridente tra il mare, una linea d’azzurro, e i monti della Tolfa, masse compatte, verde bruno raggruppate contro il cielo. Ricca di coltivazioni, come pure doveva essere ai tempi dei tirreni, ma anche di ville e villette, segno che il processo contemporaneo di costruzione edilizia non si arrestava.
Quando finalmente scesero dall’automobile, circondati dai tumuli, ancora una volta ebbero l’impressione forte di trovarsi in un altro mondo.
- Si sente l’odore della campagna – disse Daniele.
Tutto intorno era il verde d’aprile e sopra di esso si alzavano alte le spighe dei pallidi asfodeli, in piena fioritura. Le sommità dei tumuli ne erano piene. Dalla parte del mare un sole rosso si apprestava ad uno dei migliori, rinomati tramonti tirrenici. Se la volta celeste era un fragoroso contrasto di colori, i “fiori dei morti” erano uno spettacolo molto meno assordante ma, in tono minore, un canto altrettanto magnifico.
Daniele si concentrò sul tramonto, finchè il sole scomparve; Cristina sugli asfodeli, spiando le le nere imboccature di porte e finestre, le porte a “becco di civetta”, delle abitazioni sepolcrali. Dal pianoro della necropoli era l’odierna Cerveteri che ora si stendeva davanti a loro…”

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