E, leggendo in contemporanea, come mi succede, il Tolstoj di Guerra e Pace, non sarà il capo o il genio di questo momento, non sarà Marchionne, il fattore decisivo, saremo, quantanche inconsapevolmente, tutti-noi.
Dal canto suo Marchionne da Detroit batte il pugno sul tavolo e dice che se n’andrebbe ma poi aggiunge che auspica il cambiamento e questa parola magica per un Paese vecchio che non sa mutarsi ci conquista.
Capire l’Italia per cambiare, avevamo detto. Non possiamo tornare agli anni sessanta, alle contrapposizioni di quel periodo in fabbrica e nella società perché le condizioni sono cambiate; sarebbe evidente ma c’è chi spinge per farci ritornare indietro, quando oggi l’anello più debole è rappresentato dai giovani e dalle famiglie che hanno bisogno di sostegno, come emblematicamente denuncia il fatto di Piazza Grande a Bologna. Proprio dentro le famiglie disagiate si fanno oggi i sacrifici più grossi e proprio in un Paese dove tutti si riempiono la bocca della parola famiglia e più scarse sono le misure d’assistenza nei suoi confronti. Ancora una volta è l’individualismo becero a prevalere.
In altri paesi europei, negli Stati Uniti e nel Canada, i sindacati hanno preso strade diverse dalla sola difesa del salario e dell’orario di lavoro, evidentemente con una minor diffidenza ideologica verso il capitale e l’azienda, da noi mera controparte. Così oggi gli operai di quei paesi sono più motivati ai sacrifici perché se l’azienda cresce, oltre il salario, sono compartecipi della ripresa e sanno d’investire per il futuro dei loro figli.
Ma noi possiamo ancora cambiare.
